Il rinoceronte bianco guardò
con gli occhi miopi, un poco infastidito dalla figura mobile, nebbiosa
nei contorni e non più grossa delle corna che gli crescevano sul
muso.
-Ciao, naso
schiacciato- gridò Bushongo, fermatosi, a breve distanza dal bestione,
per calmare l'affanno ed esporsi al cimento. -Stai sul chi vive, eh! Hai
visto i simbi, questa mattina.- Rise a bocca piena e riprese la corsa,
diretto al fiume. I simbi, i geni dispettosi delle acque, erano, di certo,
stanchi, a quell'ora del mattino; riposavano, in qualche anfratto, sul
profondo alveo del Lualaba. Non li avrebbe risvegliati l'ombra dell'airone,
né lo sbadiglio, a libere ganasce, dell'ippopotamo.
Lasciato
alle spalle, anche il villaggio dormiva.
La vedova
Nkamba sarebbe uscita tra poco, stretta nella tunica candida e, scesa alla
fonte, avrebbe cantato:
-Un bambino
non me lo vogliono prestare. Soltanto un piatto, un mortaio. Se fossi un'aquila
o un altro uccello da preda, lo rapirei.
L'invocazione
avrebbe rubato una lacrima o favorito un tenero sorriso.
Le antilopi
giganti s'inebriavano nella sgroppata mattutina, ai bordi della boscaglia,
e parevano, nella lontananza, arcieri mitologici ritagliati nella porpora
dell'orizzonte. La verruca pelosa della prateria - così il babbo
chiamava il ciuffo dei tre banani - era scossa dal bufalo nero, intento
a sgravarsi di notturne inquietudini. I compagni di branco lo fissavano
con placida incredulità: le corna si alzavano e riabbassavano per
le esigenze della pastura, con moto regolare che le assomigliava a braccia
invocanti secondo il rituale dell'Islàm.
Era vicina
la sponda; e già l'alito del Lualaba carezzava la pelle con la sua
frescura. I cinque fratelli Wagenia scivolavano nell'agile piroga, verso
le nasse gonfie. Ritmavano il tuffo dei remi e il movimento delle braccia,
con una sincronia di bielle e di stantuffi. I corpi muscolosi lucevano
ai primi raggi.
-Vai a caccia
di spiriti, Bushongo?- gridò il più giovane.
-Cerco bacche-
gli rispose.
-Non vai
a scuola?
-Tra poco,
Kitikwz. E tu, non vieni?
-Scendo alle
rapide: i pesci attendono.
Vide l'imbarcazione
rimpicciolire, ora non più che valva di baccello in balia di crespe
frenetiche. Era opportuno si affrettasse: il maestro, fra poco, lo avrebbe
atteso nella capanna, dove il sapere indossava abiti semplici, ma celebrava
una liturgia universale.
Potevano
dirsi fortunati, lui e i suoi compagni. Nei villaggi dell'interno, vigeva,
infatti, la "scuola della foresta", scandita di pratiche disumane e incentrata
sulla iniziazione alla crudeltà. Invero, gli costava non poca fatica
mettere d'accordo la conoscenza di una lingua agglutinante come la sua,
in cui alle radici verbali o nominali era abituato ad aggiungere un sistema
rigido di prefissi, infissi, suffissi per ottenere vocaboli nuovi, con
lo studio di una lingua flessiva qual è il francese, costituita
di radici variabili, congiunte a suffissi e a desinenze, cioè di
parole da coniugare e declinare. Bisogna dire che, tuttavia, questa lingua
europea gli piaceva e che, in ogni caso, il martirio inflitto alla mente
era una delizia al confronto con le torture fisiche e morali a cui assoggettava
i ragazzi la "didattica" dei cacciatori-guerrieri e degli stregoni.
Sedette su
un largo ceppo. Non aveva alcuna voglia di spingersi oltre. Avvertiva la
strana sensazione che la giornata stesse per riservargli una sorpresa.
***
Quando
Horo aprì gli occhi, la torre del tempio si lasciò frugare
dal caldo sguardo dell'astro e la miriade di statue che la ornavano emersero
dai viluppi ombrosi e salutarono il giorno nuovo.
Il cigolìo di un carro diede la sveglia ai primi rumori.
Alcune voci si levarono dalla strada e, subito, Horo riconobbe il simpatico
motteggiare fra la mamma e il venditore di latte.
-È degno dei quattro paradisi- ripeteva l'uomo, a voce alta.
-È forse il succo della sacra mucca Kamadhenu?-, ribatté
la mamma, con interrogativo nient'altro che retorico.
-Sprizza, tra le mie dita devote, genuino e puro, nutre il corpo e disseta
lo spirito.
-Ti guardo con diffidenza, venditore di latte. Mungi la vacca a ogni porta
del villaggio. Com'è possibile? Gl'irriverenti osano domandarsi
dove celi l'acqua a cui la tua mano di giocoliere ricorre per colmare la
misura. Non dirmi che le mammelle sono fontane.
-Vicino al suo orecchio pronuncio la formula magica; con venerazione e
con amore, raccolgo le tracce provvidenziali che punteggiano il suo cammino.
Così, la venerabile nutrice mi ricompensa, mediante l'abbondanza
del liquido avorio.
-Non mentire, mungitore. Non la pietà ti guida, ma l'avarizia. Farai
disseccare quelle tue zolle stercorare e ravviverai con esse le fiamme
della stufa.
-Il fuoco è sacro, o donna, e richiede un alimento sacro. Prendi
il vaso e dammi le rupìe.
Avevano smesso il finto questionare, il rituale battibecco. Horo sorrise.
Dalla finestra, aperta accanto, alla sinistra del letto, vide la mamma
avvicinarsi con il bricco pieno. Udì il tamburo chiamare alla preghiera:
filtrati dal palmeto e sommersi dalle voci, i rulli affiochivano, simili
a tuoni che brontolassero all'orizzonte. Sullo stagno ninfee galleggianti
coprivano l'immagine riflessa delle case.
Balzò in piedi, si asperse il capo con l'acqua del catino, si sciacquò
la bocca. Al sole nascente volse parole di adorazione.
-Scaldo il latte- disse la mamma. Gli si avvicinò e gli depose un
bacio sulla fronte. -Mi sembri preoccupato: chiedi aiuto al dio dai mille
nomi.
-Millecento e otto- precisò Horo.
-Ripeti con me: "O Ganesa, figlio di Shiva che regge l'Universo e negli
spazi infiniti cavalca il toro possente; te, a cui lo sguardo di Pärvatï,
tua madre, distrusse il capo con fiamme d'amore e sopra il collo fu posta
la saggezza dell'elefante, intreccia le dita delle sei mani virtuose, fammene
scudo, aiutami nelle difficoltà".
Bastava attraversare il primo corpo del villaggio, di fianco allo stagno
dalle profondità irrequiete, stracciate dalla luce in un caleidoscopio
di mosse parvenze, di arabeschi vegetali, fra capanne di paglia tutte uguali
e qualche casa di legno, allegrata da logge o balconi, abbellita sulla
facciata di fregi e d'intagli.
Horo preferì dirigersi alla volta del palmeto e, in tal modo, allungare
il cammino. Brevi radure slargavano, di quando in quando, la strada di
terra battuta, designate con nomi evocativi di storie, leggende: i Sette
Serpenti, l'Arma di Kalì, le Beatitudini... L'ultima soltanto aveva
il battesimo della realtà, del fatto quotidiano: stretta nel cerchio
dei giganti arborei, increspata di tenui rialzi, con qualche arruffìo
di erbe smunte e contorti cespugli, si raccoglieva torno torno a un tempietto
di marmo, ampio quanto occorresse a cingere un'ara, meta occasionale di
guru, santoni, fachiri di passaggio, sosta di contadini devoti, viaggiatori
curiosi, bighelloni d'ogni estrazione.
Procedeva diritto. Si sarebbe incontrato tra poco con gli amici e con loro
avrebbe speso un pugno di minuti, in attesa che il bidello lanciasse il
richiamo perentorio, non più che uno strido, in verità. Si
lasciava trasportare dai pensieri.
A un tratto, ebbe un sussulto. Nella piccola radura dell'Uomo-Leone (una
delle reincarnazioni di Visnù), ancora soffusa di ombre, un asceta
riposava supino, con gli occhi puntati al cielo. Horo lo riconobbe. Pensò
fosse suo dovere rivolgergli la parola. Che cosa dirgli e quali il modo
e il tono appropriati? "Il santone è al colmo della dignità
umana, è al termine del suo samsara; spezza il flusso delle forme
mortali e si ricongiungerà con Brahman, cosmica potenza e spirito
infinito". Si sforzò di ricordare gl'insegnamenti precettivi: "Sii
riverente, rispettoso della tradizione. Ricorri alle immagini poetiche,
poiché esse piacciono a colui che si tiene lontano dalle cose materiali".
-Non ci si stende nel verde, mahatma-, apostrofò Horo. -La sacra
naia colpisce a tradimento ed i cobrini irrequieti, storditi dalla curiosità,
lasciano nelle carni i segni mortali.
-Ti conosco, impertinente figlio di Bharata. Il destino è scritto
sulla fronte. Chi nasce muore, e la ruota delle reincarnazioni gira con
moto inarrestabile. Se non fui cobra, forse lo sarò. Esso mi è
fratello. Con l'ovale del collo ha ombreggiato il Buddha dormiente.
-Perdonami, mahatma: non volevo offenderti.
-Il Signore è pianta, animale, volo d'insetto, essenza di fiore.
È il folle che scuote il capo nel villaggio e batte i piedi con
rabbia felice, quando il musico ricama la melodia del liuto e sbalza le
note sul ritmo ondulante; è il saggio che addestra la mente a cogliere
i principi e tiene lontane le immaginazioni, specchia se stesso in quello
che Egli è e si riveste d'un guscio imperturbabile. Lasciami udire
le voci del silenzio, lo stelo che ride, la foglia che sussurra, poiché
al principio era il Nulla, ma il Signore lo abitava per intero.
-Sapiente sädhu [santo, giusto], mi hai insegnato che è ignoranza
il non sapere scorgere l'immagine di Brahma negli esseri viventi; e l'ignoranza
è peccato. Ma serve la divinità colui che si è posto
al servizio dell'uomo.
-La vera azione è solo nella conoscenza. I traffici del mondo e
gli affanni del cuore sottraggono all'abbraccio dello spirito. Qui, le
stanche palpebre suggellano i ricordi, le mie ossa provate ricevono riposo.
Lascia ch'io spezzi le catene della trasmigrazione, la schiavitù
delle forme mortali e, nella quiete perfetta, l'Assoluto mi assorba.- Fissò
Horo con sguardo intenso, luminoso di una profonda sapienza della vita.
Piegò il capo; e le rughe scavate parvero solchi incisi nella terracotta.
-Ti saluto, mahatma, e ti chiedo perdono- disse, nell'accomiatarsi il giovane
scolaro.
Riprese, dunque, il cammino. Correndo, gli amici gli vennero incontro:
Pärs'va, Jahaì-ngär, Akbar, Gulab, Jawaharlal.
***
Si spronarono, all'istante. Il piccolo Bartolomé volò davanti
a tutti, per una decina di metri; poi, cominciò a perdere terreno,
fu superato da Juan Manuel, Victor, Luis Cesar, Pablito, José, Lucas
e si trovò ad essere il fanalino di coda.
-Aspettatemi.
Si fermarono,
col fiato grosso. Una ragazzina venne loro incontro in bicicletta.
-Ciao, Olinda.
-Dove andate?-
Esibiva due lunghe trecce adorne di fiocchi arancione. -Vengo con voi.-
Mise il piede destro in terra.
-Si va ad
ammirare la "San Roque".
-La San che?
-Un bastimento
che ostruisce il corso del Rachuelo.
-Per la mia
bambola!, dici davvero?
-La "San
Roque" ha la prua e la poppa così lontane che fra loro non si vedono
neppure col cannocchiale.
-Rimango
a bocca di pesce-, rise Olinda.
-Anch'io,
sai, ho stralunato gli occhi, appena l'ho saputo da Victor.
Continuavano
a camminare, mentre la ciclista faceva la staffetta, avanti e indietro.
Procedeva a scatti, impennandosi, ora su l'uno, ora l'altro dei pedali:
le treccine le frustavano le spalle e aggiungevano alla sua vivacità
una nota di gaiezza.
-Siamo vicini,
ragazzi- gridò Victor e prese a correre verso la riva.
Le acque
impigrivano presso alla confluenza: avevano l'aria di schifare il contatto
con la salsedine e le chiazze catramose, isolette mortifere che andavano
alla deriva.
-Dov'è,
dov'è?- domandarono in coro.
-Nel porticciolo-
rispose Victor. -Venite.- Li precedette sino alla piccola darsena, dov'erano
ancorate alcune pescherecce e qualche minuscola barca a vela.
Legata all'approdo,
ondeggiava, con ritmo lento, una iole (a quattro vogatori), sulla cui bassa
fiancata correva, attraverso lettere gialle maiuscole, la scritta "San
Roque".
Restarono
muti, per qualche istante. Poi, tutti insieme scoppiarono nella più
sgangherata delle risate, mai risonate sulla riva di quel fiume.
-È
immensa- esclamò Juan Manuel. -Ci si può trasportare tutta
Buenos Aires e una fetta dell'Argentina, Ande comprese.
-E qualche
altro pugno di terra-, aggiunse Victor, con le lacrime agli occhi per l'ilarità
che ancora lo stava scotendo. -Ci stiamo comodi in quattro. Vi pare poco?
È una freccia. "La nostra torpedo", la chiama papà.
-Bisogna
che la ribattezziamo- propose, a un tratto, il piccolo Bartolomé.
-Non vedi-,
saltò su Luis Cesar, -che ha già il suo bel nome, molto più
lungo del fasciame?
***
Mare e cielo svaporavano, all'orizzonte, in una nebulosità lattiginosa,
popolata di grigie sagome, incostanti.
-Che vuoi, pa'?- domandò, in risposta a un richiamo.
-È domenica: si va a pesca di snapper e tarakihi.
-A me piacciono le triglie, pa'.
-Come vuoi. Triglie da farci indigestione!
-Non ricordarmi l'indigestione.
-La torta di zia Clotilde, eh, Peter!?
-Sì, pa'.
Il signor Kingston rise forte.
-Armeggerò in rimessa, sino alle otto.
-Fino alle otto, pa'.
Sul lembo estremo della terra, il tetto grigio della fattoria Simpsson
non riusciva a introdurre un accento di mestizia nella solare gaiezza dei
limoni; un trattore, fiamma e carbone, rimpiccioliva dietro ai banani;
la cabina meteorologica del signor Smith (pretenzioso definirla stazione),
tirata su a immagine di campanile e resa sbilenca da un uragano, sembrava
allungare il collo verso lo scalo delle baleniere: voleva godersi la sua
fetta di avventura oceanica e, non potendo sradicare i piedi, si accontentava
di spiare perigliose imprese, nei visi bruciati dalla salsedine, negli
sguardi approfonditi dalle scrutate lontananze.
In un altro momento, i filari del caffè avrebbero spronato la fantasia
di Peter a immaginare prodezze di eserciti avanzanti, fieri dei rossi alamari
e dei pennacchi bianchi; i pini del colle, sparsi sul culmine, in solitudine
sdegnosa, e i cespugli, acquattati nelle declivi pieghe, ancora ombrose,
gli avrebbero dipinto fulgori di battaglie e di eroismi e, per contrasto,
l'ignobiltà dell'insidia e dell'inganno.
I sette cavalli del signor Wattson pascolavano nel recinto, con una fiaccona
da giorni monsonici; fedeli al proposito d'ignorarsi, si volgevano i posteriori:
erano maldisposti, secondo un atteggiamento ricorrente nelle prime ore
del mattino, oppure obbedivano a una regola del galateo equino, compendiabile
nelle parole: "Non avere mai l'aria dell'impiccione e astieniti, in ogni
circostanza, dal concupire l'erba che mangia il tuo vicino."
Nella "Esperance Farm", le ombre dell'aranceto inghiottivano il vecchio
signor Charlton, rattrappito sul purosangue dal magnificato pedigree, e
Trudy, la bionda nipotina, rincorreva il bassotto Moiety, il botolino antipatico
che faceva rizzare le penne alle galline di zia Clementine.
Peter si disse che era ben piccola la sua isola. Non contava che 38 chilometri
quadrati di superficie e poco più di un migliaio di abitanti, quasi
tutti raccolti a Kingston, nel capoluogo. Il papà, che pure aveva
girato il mondo e doveva aver posato lo sguardo su non poche meraviglie,
la giudicava una sorta di bengòdi, benedetta, oltre che dalla fertilità
del suolo, dalla dolcezza del clima. Aranci, limoni, ananassi, banani,
piante del caffè e fiori espressi da ogni possibile ghiribizzo genetico
facevano a gara col pappagallo gang-gang, azzurro nel corpo e rosso nella
testa, con la rosella, dal piumaggio acceso di colori, e con una moltitudine
di uccelli marini, vestiti a festa e sempre in gara tra di loro per darsi
prova di chi meglio avesse attinto alle glorie dell'arcobaleno, ma soccombevano,
nel confronto, dinanzi al miracolo dell'aurora, quando il sole coi suoi
dardi tagliava per lungo l'orizzonte e la palla infocata si disegnava come
l'occhio di un dio che, sollevata la nera palpebra, ripercorresse la rotta
del creato.
Si domandò come poteva essere, quando, nel lontano 1.774, fu scoperta
dall'ammiraglio Cook e quando, nel 1.856, accolse, primi abitatori, i discendenti
degli ammutinati del "Bounty", giunti dall'isolotto di Pitcairn.
***
Un esercito di ragazzini
arrivava, al piccolo trotto, assalito, ogni poco, e più frequentemente
a mano a mano che s'avvicinava, da una indecisione, subito risolta, cosicché,
nell'atto di arrestarsi, riprendeva l'andatura, scompigliandosi, sfrangiandosi
qua e là, per un residuo d'incertezza, un impaccio di gambe, un
accenno di fuga isolata.
I nostri
si domandarono con gli occhi che cosa dovessero attendersi e quale atteggiamento
assumere. Sorpresi e perfino intimoriti dalla novità, non si scambiarono
parola.
Juan Manuel
rivisse il brivido che, ad ogni assalto della banda avversaria di La Boca,
gli serpeggiava per la schiena. La vista di tante anime vocianti imprigionò
Peter, ragazzo di fattoria e scolaro dai pochi compagni, in un intrico
di sensazioni, avviluppate dallo stupore. Bushongo sentì che un
afflusso di sangue gli recava per le vene l'orgoglio guerresco dei padri.
Smarrito ancora più degli altri il sentimento del presente, Horo
si vide trascinato verso le acque del fiume sacro da una turba di fedeli,
imbestiati dalla rituale impellenza d'immollarsi all'aurora. Stefano turbinò
con la coscienza fra immagini televisive di Sioux e Cheyenne alla carica
e fu certo d'impersonare il generale Custer nel sacrificio del Little Big
Horn.
La truppa isolana,
arrestatasi a una decina di metri dallo scheletro della capanna, cominciò
a disporsi in lungo allineamento, senza risparmio di spinte e gomitate,
di piccole furberie messe in atto per giungere dove si voleva e di altri
soprusi, fatti e subiti, fuori di ogni conteggio del dare e dell'avere
come si conviene fra gli amici. Rari suoni di voce accompagnarono, infatti,
le molte prepotenze.
La schiera
rimase immobile e parve assorta nella contemplazione o irrigidita dalla
timidezza; poi, con moto incostante delle estremità, prese a convergere
e, quando, un minuto dopo, ebbe figura di arco teso, fu paga del nuovo
assetto e si ridusse, in un rapido fluttuare, dalla posizione eretta a
quella seduta.
I cinque
erano rimasti soggiogati dallo spettacolo. Sebbene avessero, sulle prime,
seguito la manovra con una certa inquietudine, avevano finito col leggere
nei volti dei sopravvenuti ben più che un proposito di pace o un'offerta
di amicizia, addirittura un sentimento di soggezione e, quasi, di riverenza.
Riparo alla fragilità dei singoli era soltanto il numero. Nessuno
avrebbe avuto l'ardire di arrivar da solo. Si capiva come li avessero condotti
la curiosità e il bisogno di essere, in qualche modo, partecipi
di un avvenimento che i vari "si dice", il viavai della squadra televisiva,
le sbirciatine, velate dalla distanza e, più ancora, dalla vegetazione,
avevano circonfuso di nobile mistero.
-Mi sembrano
pellirosse riuniti a gambe incrociate nel Gran Consiglio- disse Stefano.
-Ho l'impressione
di esibirmi sul palcoscenico- osservò Juan Manuel. -Mi vergogno
di fronte a tanti occhi che ci esplorano, scuri e lucidi.
-Mi sento
a disagio anch'io-, gli fece eco Bushongo. -Non possiamo continuare il
nostro lavoro-, concluse.
Frattanto,
i giovani spettatori si barattavano sorrisi con l'aria di volersi l'un
l'altro complimentare per la decisione presa, di cui stavano godendo i
primi frutti, ma sciorinavano ad ampia ganascia il gioioso biancore dei
denti appena giravano il capo verso i cinque anfitrioni, come a ringraziarli
di averli accolti e a calamitarne la simpatia.
-Fingiamo
che non esistano- suggerì Stefano, offrendo un esempio di buona
lena. Si rivolse a Peter che, ancora, indugiava: -Forza, amico! Non vuoi
finire la capanna?
Lo sguardo
intenso, una irrequietezza dei muscoli, visibile nei corpi lucidi, protetti
dal solo costumino da bagno, un impercettibile avanzare dei sederi, come
se poggiassero su un tappeto mobile e imponessero l'obbligo di stare davanti
agli altri, disegnarono per l'intelligenza vigile di Bushongo l'attitudine
propria di chi soffre a rimanere inoperoso e vorrebbe mostrare quanto siano
abili le sue mani e sveglio il suo cervello.
-Caro Robinson-
esclamò, a un tratto, rivolto a Juan Manuel -, basterebbe un cenno,
perché si trasformassero nei tuoi Venerdì. E anche nostri,
beninteso.
Horo che,
nel frattempo, aveva atteso all'opera, come si conviene, di fronte ai propri
discepoli, a ogni buon maestro d'arte, ebbe l'impressione che i visitatori
si fossero avvicinati di parecchio.
-Mi alitano
addosso-, commentò, voltandosi dalla parte del signor Hernandez
che, lasciato il comodo sostegno del cocco, si ergeva a gambe larghe tra
il piccolo cantiere dei suoi protetti e il punto di mezzo di quell'arco
umano, ma restava indeciso sul da farsi.
***
Si tolsero scarpe, calze e pantaloni, ma, dopo un rapido, seppur gioioso,
approccio con l'acqua, lasciarono morire l'entusiasmo artificiale che li
aveva spronati fuori di casa, tra il verde cupo degli alberi e traverso
la spiaggia ingrigita. Di fronte all'arcana profondità della notte,
sopraggiunta or ora, agli echi dell'infinito, modulati da lontane risacche,
alla pallida luminescenza dell'orizzonte, li prese un senso di stupefazione.
L'uno accanto all'altro, giacevano distesi appena di qua dalla battigia,
in modo che bastasse allungare le gambe per gustare la carezza dell'onda
morente. Erano pensosi.
-Un poco di nostalgia, ragazzi?- domandò Horo. Non dubitò
che l'avessero capito, nonostante l'assenza dell'interprete. Non ricevette
risposta. -Peter ha la fortuna-, riprese, -di scaricarla nelle sue poesie.
Scrive qualche verso, ogni sera, prima di addormentarsi.
Un fruscio improvviso fece volgere a tutti il capo. Perlustrarono con lo
sguardo la fascia di sabbia che si allungava, stretta tra loro e le palme
da cocco. A un tratto, videro un'agile figura sorgere e ritagliarsi in
rapida sequenza contro lo sfondo buio.
-È già sparita, Raggio di Luna- disse Juan Manuel.
-Hai ragione: si tratta, senz'altro, di una fata-, commentò Stefano.
Si rivestirono. La fugace visione li aveva ammutoliti.
....................................
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