Tonga Tonga! porta sulla scena cinque fanciulli, ciascuno dei quali è il rappresentante di uno dei cinque continenti. L'esperienza comune fa sorgere e alimenta un'amicizia e uno spirito collaborativo, destinati a durare e a tradursi - sono diventati, i cinque, vent'anni dopo, personaggi importanti - nell'impegno condiviso di mettere insieme i talenti e le opportunità per realizzare almeno un piccolo progetto a beneficio delle popolazioni trascurate dalla storia. Non mancano nella vicenda i palpiti dell'amore adolescenziale e le riflessioni che fioriscono dalle menti dei cinque magnifici portatori di esperienze e culture diverse.
I brani offerti in lettura sono tratti daTonga Tonga[COPYRIGHT]di
Dionisio Da Pra.

   Il rinoceronte bianco guardò con gli occhi miopi, un poco infastidito dalla figura mobile, nebbiosa nei contorni e non più grossa delle corna che gli crescevano sul muso.
   -Ciao, naso schiacciato- gridò Bushongo, fermatosi, a breve distanza dal bestione, per calmare l'affanno ed esporsi al cimento. -Stai sul chi vive, eh! Hai visto i simbi, questa mattina.- Rise a bocca piena e riprese la corsa, diretto al fiume. I simbi, i geni dispettosi delle acque, erano, di certo, stanchi, a quell'ora del mattino; riposavano, in qualche anfratto, sul profondo alveo del Lualaba. Non li avrebbe risvegliati l'ombra dell'airone, né lo sbadiglio, a libere ganasce, dell'ippopotamo.
   Lasciato alle spalle, anche il villaggio dormiva.
   La vedova Nkamba sarebbe uscita tra poco, stretta nella tunica candida e, scesa alla fonte, avrebbe cantato:
   -Un bambino non me lo vogliono prestare. Soltanto un piatto, un mortaio. Se fossi un'aquila o un altro uccello da preda, lo rapirei.
   L'invocazione avrebbe rubato una lacrima o favorito un tenero sorriso.
   Le antilopi giganti s'inebriavano nella sgroppata mattutina, ai bordi della boscaglia, e parevano, nella lontananza, arcieri mitologici ritagliati nella porpora dell'orizzonte. La verruca pelosa della prateria - così il babbo chiamava il ciuffo dei tre banani - era scossa dal bufalo nero, intento a sgravarsi di notturne inquietudini. I compagni di branco lo fissavano con placida incredulità: le corna si alzavano e riabbassavano per le esigenze della pastura, con moto regolare che le assomigliava a braccia invocanti secondo il rituale dell'Islàm.
   Era vicina la sponda; e già l'alito del Lualaba carezzava la pelle con la sua frescura. I cinque fratelli Wagenia scivolavano nell'agile piroga, verso le nasse gonfie. Ritmavano il tuffo dei remi e il movimento delle braccia, con una sincronia di bielle e di stantuffi. I corpi muscolosi lucevano ai primi raggi.
   -Vai a caccia di spiriti, Bushongo?- gridò il più giovane.
   -Cerco bacche- gli rispose.
   -Non vai a scuola?
   -Tra poco, Kitikwz. E tu, non vieni?
   -Scendo alle rapide: i pesci attendono.
   Vide l'imbarcazione rimpicciolire, ora non più che valva di baccello in balia di crespe frenetiche. Era opportuno si affrettasse: il maestro, fra poco, lo avrebbe atteso nella capanna, dove il sapere indossava abiti semplici, ma celebrava una liturgia universale.
   Potevano dirsi fortunati, lui e i suoi compagni. Nei villaggi dell'interno, vigeva, infatti, la "scuola della foresta", scandita di pratiche disumane e incentrata sulla iniziazione alla crudeltà. Invero, gli costava non poca fatica mettere d'accordo la conoscenza di una lingua agglutinante come la sua, in cui alle radici verbali o nominali era abituato ad aggiungere un sistema rigido di prefissi, infissi, suffissi per ottenere vocaboli nuovi, con lo studio di una lingua flessiva qual è il francese, costituita di radici variabili, congiunte a suffissi e a desinenze, cioè di parole da coniugare e declinare. Bisogna dire che, tuttavia, questa lingua europea gli piaceva e che, in ogni caso, il martirio inflitto alla mente era una delizia al confronto con le torture fisiche e morali a cui assoggettava i ragazzi la "didattica" dei cacciatori-guerrieri e degli stregoni.
   Sedette su un largo ceppo. Non aveva alcuna voglia di spingersi oltre. Avvertiva la strana sensazione che la giornata stesse per riservargli una sorpresa.
 
 

***

  Quando Horo aprì gli occhi, la torre del tempio si lasciò frugare dal caldo sguardo dell'astro e la miriade di statue che la ornavano emersero dai viluppi ombrosi e salutarono il giorno nuovo.
   Il cigolìo di un carro diede la sveglia ai primi rumori.
   Alcune voci si levarono dalla strada e, subito, Horo riconobbe il simpatico motteggiare fra la mamma e il venditore di latte.
   -È degno dei quattro paradisi- ripeteva l'uomo, a voce alta.
   -È forse il succo della sacra mucca Kamadhenu?-, ribatté la mamma, con interrogativo nient'altro che retorico.
   -Sprizza, tra le mie dita devote, genuino e puro, nutre il corpo e disseta lo spirito.
   -Ti guardo con diffidenza, venditore di latte. Mungi la vacca a ogni porta del villaggio. Com'è possibile? Gl'irriverenti osano domandarsi dove celi l'acqua a cui la tua mano di giocoliere ricorre per colmare la misura. Non dirmi che le mammelle sono fontane.
   -Vicino al suo orecchio pronuncio la formula magica; con venerazione e con amore, raccolgo le tracce provvidenziali che punteggiano il suo cammino. Così, la venerabile nutrice mi ricompensa, mediante l'abbondanza del liquido avorio.
   -Non mentire, mungitore. Non la pietà ti guida, ma l'avarizia. Farai disseccare quelle tue zolle stercorare e ravviverai con esse le fiamme della stufa.
   -Il fuoco è sacro, o donna, e richiede un alimento sacro. Prendi il vaso e dammi le rupìe.
   Avevano smesso il finto questionare, il rituale battibecco. Horo sorrise.
   Dalla finestra, aperta accanto, alla sinistra del letto, vide la mamma avvicinarsi con il bricco pieno. Udì il tamburo chiamare alla preghiera: filtrati dal palmeto e sommersi dalle voci, i rulli affiochivano, simili a tuoni che brontolassero all'orizzonte. Sullo stagno ninfee galleggianti coprivano l'immagine riflessa delle case.
   Balzò in piedi, si asperse il capo con l'acqua del catino, si sciacquò la bocca. Al sole nascente volse parole di adorazione.
   -Scaldo il latte- disse la mamma. Gli si avvicinò e gli depose un bacio sulla fronte. -Mi sembri preoccupato: chiedi aiuto al dio dai mille nomi.
   -Millecento e otto- precisò Horo.
   -Ripeti con me: "O Ganesa, figlio di Shiva che regge l'Universo e negli spazi infiniti cavalca il toro possente; te, a cui lo sguardo di Pärvatï, tua madre, distrusse il capo con fiamme d'amore e sopra il collo fu posta la saggezza dell'elefante, intreccia le dita delle sei mani virtuose, fammene scudo, aiutami nelle difficoltà".

…………………………

   Bastava attraversare il primo corpo del villaggio, di fianco allo stagno dalle profondità irrequiete, stracciate dalla luce in un caleidoscopio di mosse parvenze, di arabeschi vegetali, fra capanne di paglia tutte uguali e qualche casa di legno, allegrata da logge o balconi, abbellita sulla facciata di fregi e d'intagli.
   Horo preferì dirigersi alla volta del palmeto e, in tal modo, allungare il cammino. Brevi radure slargavano, di quando in quando, la strada di terra battuta, designate con nomi evocativi di storie, leggende: i Sette Serpenti, l'Arma di Kalì, le Beatitudini... L'ultima soltanto aveva il battesimo della realtà, del fatto quotidiano: stretta nel cerchio dei giganti arborei, increspata di tenui rialzi, con qualche arruffìo di erbe smunte e contorti cespugli, si raccoglieva torno torno a un tempietto di marmo, ampio quanto occorresse a cingere un'ara, meta occasionale di guru, santoni, fachiri di passaggio, sosta di contadini devoti, viaggiatori curiosi, bighelloni d'ogni estrazione.
   Procedeva diritto. Si sarebbe incontrato tra poco con gli amici e con loro avrebbe speso un pugno di minuti, in attesa che il bidello lanciasse il richiamo perentorio, non più che uno strido, in verità. Si lasciava trasportare dai pensieri.
   A un tratto, ebbe un sussulto. Nella piccola radura dell'Uomo-Leone (una delle reincarnazioni di Visnù), ancora soffusa di ombre, un asceta riposava supino, con gli occhi puntati al cielo. Horo lo riconobbe. Pensò fosse suo dovere rivolgergli la parola. Che cosa dirgli e quali il modo e il tono appropriati? "Il santone è al colmo della dignità umana, è al termine del suo samsara; spezza il flusso delle forme mortali e si ricongiungerà con Brahman, cosmica potenza e spirito infinito". Si sforzò di ricordare gl'insegnamenti precettivi: "Sii riverente, rispettoso della tradizione. Ricorri alle immagini poetiche, poiché esse piacciono a colui che si tiene lontano dalle cose materiali".
   -Non ci si stende nel verde, mahatma-, apostrofò Horo. -La sacra naia colpisce a tradimento ed i cobrini irrequieti, storditi dalla curiosità, lasciano nelle carni i segni mortali.
   -Ti conosco, impertinente figlio di Bharata. Il destino è scritto sulla fronte. Chi nasce muore, e la ruota delle reincarnazioni gira con moto inarrestabile. Se non fui cobra, forse lo sarò. Esso mi è fratello. Con l'ovale del collo ha ombreggiato il Buddha dormiente.
   -Perdonami, mahatma: non volevo offenderti.
   -Il Signore è pianta, animale, volo d'insetto, essenza di fiore. È il folle che scuote il capo nel villaggio e batte i piedi con rabbia felice, quando il musico ricama la melodia del liuto e sbalza le note sul ritmo ondulante; è il saggio che addestra la mente a cogliere i principi e tiene lontane le immaginazioni, specchia se stesso in quello che Egli è e si riveste d'un guscio imperturbabile. Lasciami udire le voci del silenzio, lo stelo che ride, la foglia che sussurra, poiché al principio era il Nulla, ma il Signore lo abitava per intero.
   -Sapiente sädhu [santo, giusto], mi hai insegnato che è ignoranza il non sapere scorgere l'immagine di Brahma negli esseri viventi; e l'ignoranza è peccato. Ma serve la divinità colui che si è posto al servizio dell'uomo.
   -La vera azione è solo nella conoscenza. I traffici del mondo e gli affanni del cuore sottraggono all'abbraccio dello spirito. Qui, le stanche palpebre suggellano i ricordi, le mie ossa provate ricevono riposo. Lascia ch'io spezzi le catene della trasmigrazione, la schiavitù delle forme mortali e, nella quiete perfetta, l'Assoluto mi assorba.- Fissò Horo con sguardo intenso, luminoso di una profonda sapienza della vita. Piegò il capo; e le rughe scavate parvero solchi incisi nella terracotta.
   -Ti saluto, mahatma, e ti chiedo perdono- disse, nell'accomiatarsi il giovane scolaro.
   Riprese, dunque, il cammino. Correndo, gli amici gli vennero incontro: Pärs'va, Jahaì-ngär, Akbar, Gulab, Jawaharlal.
 
 

***

   Si spronarono, all'istante. Il piccolo Bartolomé volò davanti a tutti, per una decina di metri; poi, cominciò a perdere terreno, fu superato da Juan Manuel, Victor, Luis Cesar, Pablito, José, Lucas e si trovò ad essere il fanalino di coda.
   -Aspettatemi.
   Si fermarono, col fiato grosso. Una ragazzina venne loro incontro in bicicletta.
   -Ciao, Olinda.
   -Dove andate?- Esibiva due lunghe trecce adorne di fiocchi arancione. -Vengo con voi.- Mise il piede destro in terra.
   -Si va ad ammirare la "San Roque".
   -La San che?
   -Un bastimento che ostruisce il corso del Rachuelo.
   -Per la mia bambola!, dici davvero?
   -La "San Roque" ha la prua e la poppa così lontane che fra loro non si vedono neppure col cannocchiale.
   -Rimango a bocca di pesce-, rise Olinda.
   -Anch'io, sai, ho stralunato gli occhi, appena l'ho saputo da Victor.
   Continuavano a camminare, mentre la ciclista faceva la staffetta, avanti e indietro. Procedeva a scatti, impennandosi, ora su l'uno, ora l'altro dei pedali: le treccine le frustavano le spalle e aggiungevano alla sua vivacità una nota di gaiezza.
   -Siamo vicini, ragazzi- gridò Victor e prese a correre verso la riva.
   Le acque impigrivano presso alla confluenza: avevano l'aria di schifare il contatto con la salsedine e le chiazze catramose, isolette mortifere che andavano alla deriva.
   -Dov'è, dov'è?- domandarono in coro.
   -Nel porticciolo- rispose Victor. -Venite.- Li precedette sino alla piccola darsena, dov'erano ancorate alcune pescherecce e qualche minuscola barca a vela.
   Legata all'approdo, ondeggiava, con ritmo lento, una iole (a quattro vogatori), sulla cui bassa fiancata correva, attraverso lettere gialle maiuscole, la scritta "San Roque".
   Restarono muti, per qualche istante. Poi, tutti insieme scoppiarono nella più sgangherata delle risate, mai risonate sulla riva di quel fiume.
   -È immensa- esclamò Juan Manuel. -Ci si può trasportare tutta Buenos Aires e una fetta dell'Argentina, Ande comprese.
   -E qualche altro pugno di terra-, aggiunse Victor, con le lacrime agli occhi per l'ilarità che ancora lo stava scotendo. -Ci stiamo comodi in quattro. Vi pare poco? È una freccia. "La nostra torpedo", la chiama papà.
   -Bisogna che la ribattezziamo- propose, a un tratto, il piccolo Bartolomé.
   -Non vedi-, saltò su Luis Cesar, -che ha già il suo bel nome, molto più lungo del fasciame?
 
 

***

   Mare e cielo svaporavano, all'orizzonte, in una nebulosità lattiginosa, popolata di grigie sagome, incostanti.
   -Che vuoi, pa'?- domandò, in risposta a un richiamo.
   -È domenica: si va a pesca di snapper e tarakihi.
   -A me piacciono le triglie, pa'.
   -Come vuoi. Triglie da farci indigestione!
   -Non ricordarmi l'indigestione.
   -La torta di zia Clotilde, eh, Peter!?
   -Sì, pa'.
   Il signor Kingston rise forte.
   -Armeggerò in rimessa, sino alle otto.
   -Fino alle otto, pa'.
   Sul lembo estremo della terra, il tetto grigio della fattoria Simpsson non riusciva a introdurre un accento di mestizia nella solare gaiezza dei limoni; un trattore, fiamma e carbone, rimpiccioliva dietro ai banani; la cabina meteorologica del signor Smith (pretenzioso definirla stazione), tirata su a immagine di campanile e resa sbilenca da un uragano, sembrava allungare il collo verso lo scalo delle baleniere: voleva godersi la sua fetta di avventura oceanica e, non potendo sradicare i piedi, si accontentava di spiare perigliose imprese, nei visi bruciati dalla salsedine, negli sguardi approfonditi dalle scrutate lontananze.
   In un altro momento, i filari del caffè avrebbero spronato la fantasia di Peter a immaginare prodezze di eserciti avanzanti, fieri dei rossi alamari e dei pennacchi bianchi; i pini del colle, sparsi sul culmine, in solitudine sdegnosa, e i cespugli, acquattati nelle declivi pieghe, ancora ombrose, gli avrebbero dipinto fulgori di battaglie e di eroismi e, per contrasto, l'ignobiltà dell'insidia e dell'inganno.
   I sette cavalli del signor Wattson pascolavano nel recinto, con una fiaccona da giorni monsonici; fedeli al proposito d'ignorarsi, si volgevano i posteriori: erano maldisposti, secondo un atteggiamento ricorrente nelle prime ore del mattino, oppure obbedivano a una regola del galateo equino, compendiabile nelle parole: "Non avere mai l'aria dell'impiccione e astieniti, in ogni circostanza, dal concupire l'erba che mangia il tuo vicino."
   Nella "Esperance Farm", le ombre dell'aranceto inghiottivano il vecchio signor Charlton, rattrappito sul purosangue dal magnificato pedigree, e Trudy, la bionda nipotina, rincorreva il bassotto Moiety, il botolino antipatico che faceva rizzare le penne alle galline di zia Clementine.
   Peter si disse che era ben piccola la sua isola. Non contava che 38 chilometri quadrati di superficie e poco più di un migliaio di abitanti, quasi tutti raccolti a Kingston, nel capoluogo. Il papà, che pure aveva girato il mondo e doveva aver posato lo sguardo su non poche meraviglie, la giudicava una sorta di bengòdi, benedetta, oltre che dalla fertilità del suolo, dalla dolcezza del clima. Aranci, limoni, ananassi, banani, piante del caffè e fiori espressi da ogni possibile ghiribizzo genetico facevano a gara col pappagallo gang-gang, azzurro nel corpo e rosso nella testa, con la rosella, dal piumaggio acceso di colori, e con una moltitudine di uccelli marini, vestiti a festa e sempre in gara tra di loro per darsi prova di chi meglio avesse attinto alle glorie dell'arcobaleno, ma soccombevano, nel confronto, dinanzi al miracolo dell'aurora, quando il sole coi suoi dardi tagliava per lungo l'orizzonte e la palla infocata si disegnava come l'occhio di un dio che, sollevata la nera palpebra, ripercorresse la rotta del creato.
   Si domandò come poteva essere, quando, nel lontano 1.774, fu scoperta dall'ammiraglio Cook e quando, nel 1.856, accolse, primi abitatori, i discendenti degli ammutinati del "Bounty", giunti dall'isolotto di Pitcairn.
 
 

***

   Un esercito di ragazzini arrivava, al piccolo trotto, assalito, ogni poco, e più frequentemente a mano a mano che s'avvicinava, da una indecisione, subito risolta, cosicché, nell'atto di arrestarsi, riprendeva l'andatura, scompigliandosi, sfrangiandosi qua e là, per un residuo d'incertezza, un impaccio di gambe, un accenno di fuga isolata.
   I nostri si domandarono con gli occhi che cosa dovessero attendersi e quale atteggiamento assumere. Sorpresi e perfino intimoriti dalla novità, non si scambiarono parola.
   Juan Manuel rivisse il brivido che, ad ogni assalto della banda avversaria di La Boca, gli serpeggiava per la schiena. La vista di tante anime vocianti imprigionò Peter, ragazzo di fattoria e scolaro dai pochi compagni, in un intrico di sensazioni, avviluppate dallo stupore. Bushongo sentì che un afflusso di sangue gli recava per le vene l'orgoglio guerresco dei padri. Smarrito ancora più degli altri il sentimento del presente, Horo si vide trascinato verso le acque del fiume sacro da una turba di fedeli, imbestiati dalla rituale impellenza d'immollarsi all'aurora. Stefano turbinò con la coscienza fra immagini televisive di Sioux e Cheyenne alla carica e fu certo d'impersonare il generale Custer nel sacrificio del Little Big Horn.
  La truppa isolana, arrestatasi a una decina di metri dallo scheletro della capanna, cominciò a disporsi in lungo allineamento, senza risparmio di spinte e gomitate, di piccole furberie messe in atto per giungere dove si voleva e di altri soprusi, fatti e subiti, fuori di ogni conteggio del dare e dell'avere come si conviene fra gli amici. Rari suoni di voce accompagnarono, infatti, le molte prepotenze.
   La schiera rimase immobile e parve assorta nella contemplazione o irrigidita dalla timidezza; poi, con moto incostante delle estremità, prese a convergere e, quando, un minuto dopo, ebbe figura di arco teso, fu paga del nuovo assetto e si ridusse, in un rapido fluttuare, dalla posizione eretta a quella seduta.
   I cinque erano rimasti soggiogati dallo spettacolo. Sebbene avessero, sulle prime, seguito la manovra con una certa inquietudine, avevano finito col leggere nei volti dei sopravvenuti ben più che un proposito di pace o un'offerta di amicizia, addirittura un sentimento di soggezione e, quasi, di riverenza. Riparo alla fragilità dei singoli era soltanto il numero. Nessuno avrebbe avuto l'ardire di arrivar da solo. Si capiva come li avessero condotti la curiosità e il bisogno di essere, in qualche modo, partecipi di un avvenimento che i vari "si dice", il viavai della squadra televisiva, le sbirciatine, velate dalla distanza e, più ancora, dalla vegetazione, avevano circonfuso di nobile mistero.
   -Mi sembrano pellirosse riuniti a gambe incrociate nel Gran Consiglio- disse Stefano.
   -Ho l'impressione di esibirmi sul palcoscenico- osservò Juan Manuel. -Mi vergogno di fronte a tanti occhi che ci esplorano, scuri e lucidi.
   -Mi sento a disagio anch'io-, gli fece eco Bushongo. -Non possiamo continuare il nostro lavoro-, concluse.
   Frattanto, i giovani spettatori si barattavano sorrisi con l'aria di volersi l'un l'altro complimentare per la decisione presa, di cui stavano godendo i primi frutti, ma sciorinavano ad ampia ganascia il gioioso biancore dei denti appena giravano il capo verso i cinque anfitrioni, come a ringraziarli di averli accolti e a calamitarne la simpatia.
   -Fingiamo che non esistano- suggerì Stefano, offrendo un esempio di buona lena. Si rivolse a Peter che, ancora, indugiava: -Forza, amico! Non vuoi finire la capanna?
   Lo sguardo intenso, una irrequietezza dei muscoli, visibile nei corpi lucidi, protetti dal solo costumino da bagno, un impercettibile avanzare dei sederi, come se poggiassero su un tappeto mobile e imponessero l'obbligo di stare davanti agli altri, disegnarono per l'intelligenza vigile di Bushongo l'attitudine propria di chi soffre a rimanere inoperoso e vorrebbe mostrare quanto siano abili le sue mani e sveglio il suo cervello.
   -Caro Robinson- esclamò, a un tratto, rivolto a Juan Manuel -, basterebbe un cenno, perché si trasformassero nei tuoi Venerdì. E anche nostri, beninteso.
   Horo che, nel frattempo, aveva atteso all'opera, come si conviene, di fronte ai propri discepoli, a ogni buon maestro d'arte, ebbe l'impressione che i visitatori si fossero avvicinati di parecchio.
   -Mi alitano addosso-, commentò, voltandosi dalla parte del signor Hernandez che, lasciato il comodo sostegno del cocco, si ergeva a gambe larghe tra il piccolo cantiere dei suoi protetti e il punto di mezzo di quell'arco umano, ma restava indeciso sul da farsi.

***



   Si tolsero scarpe, calze e pantaloni, ma, dopo un rapido, seppur gioioso, approccio con l'acqua, lasciarono morire l'entusiasmo artificiale che li aveva spronati fuori di casa, tra il verde cupo degli alberi e traverso la spiaggia ingrigita. Di fronte all'arcana profondità della notte, sopraggiunta or ora, agli echi dell'infinito, modulati da lontane risacche, alla pallida luminescenza dell'orizzonte, li prese un senso di stupefazione.
   L'uno accanto all'altro, giacevano distesi appena di qua dalla battigia, in modo che bastasse allungare le gambe per gustare la carezza dell'onda morente. Erano pensosi.
   -Un poco di nostalgia, ragazzi?- domandò Horo. Non dubitò che l'avessero capito, nonostante l'assenza dell'interprete. Non ricevette risposta. -Peter ha la fortuna-, riprese, -di scaricarla nelle sue poesie. Scrive qualche verso, ogni sera, prima di addormentarsi.
   Un fruscio improvviso fece volgere a tutti il capo. Perlustrarono con lo sguardo la fascia di sabbia che si allungava, stretta tra loro e le palme da cocco. A un tratto, videro un'agile figura sorgere e ritagliarsi in rapida sequenza contro lo sfondo buio.
   -È già sparita, Raggio di Luna- disse Juan Manuel.
   -Hai ragione: si tratta, senz'altro, di una fata-, commentò Stefano.
   Si rivestirono. La fugace visione li aveva ammutoliti.

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