Picchio Spada racconta di un neonato prodigioso. La storia alterna momenti di puro divertissement ad altri d'intonazione poetica. Il lettore partecipa alla rapida maturazione morale e intellettuale del piccolo protagonista e lo accompagna in mirabolanti avventure, alla conoscenza di strani personaggi e di luoghi che l'ingenuità del piccolo, i suoi stupori, i suoi incoercibili entusiasmi soffondono d'un magico incanto.
I brani offerti in lettura sono tratti da Picchio Spada[copyright] di
Dionisio Da Pra.
   Cresceva, il pupo, dalla mattina alla sera e dalla sera alla mattina. Le gambe, arcuate, strusciavano le cosce e dondolavano i polpacci. Aveva il petto di tenera ciccia, le gote simili a due mezze mele. I piedini battevano per l'impazienza e le manine annaspavano in cerca di sostegni. Quale consolazione vedere formarsi sulle braccia i salsicciotti di energia!
   Un bel giorno, balzò sul pavimento. Strinse le dita all'orlo della culla. Piegò un ginocchio; li curvò entrambi. Tolse una mano, rilasciò pure l'altra.
   Era felice, come può la giovenca se appena spoglia il campo del trifoglio.
   Una gambetta scivolò in avanti. Nel superare l'altra, la colpì di striscio. Oscillò col sederino, il pupo, e fu sgomento del proprio coraggio.
   "Oh, oh" disse, gorgogliando.
   "Perbacco!", gli fece eco Stabicello dalla via, tendendo il collo. Per l'abitudine che aveva di mettere d'accordo il galateo con la curiosità, divaricò gli occhi di pervinca, ombreggiati dal ciuffo color di zafferano. "Sono comodi i piani terreni." Consultò nella memoria il catalogo dei soprannomi e uno ne trovò più di misura che se l'avessero ricamato sull'anima di quell'irrequieto che si spostava nella camera da letto e sembrava volesse col naso tappare i buchi e con le braccia affettare l'aria o mettere soggezione a chi sa quale fantasma.
   Cominciò a chiamarlo a squarciagola:
   "Picchio Spada..." Picchio, pensando al naso, immaginato tale e quale un becco d'uccello, e Spada, alle braccia, viste in figura di una durlindana roteata contro una scimitarra.
   La signora Palmira ebbe il sentore di qualche stranezza e, precipitatasi dal suo figliuolo, arrivò giusto in tempo per riceverlo in grembo e stringerselo al petto.
  "A stare sveglio, ti sei buscato un soprannome. È peggio che buscarsi un raffreddore: questo va, ma quello resta. Non ti chiamerò Picchio Spada, Picchio Spada mio. Che dico? Vedi? Anche la tua mammina... Ah, Strabicello! Piuttosto Maroboduo o qualche altro strano nome, ma Picchio Spada... no e poi no! Non è vero, Picchio Spada? Picchio Spada mio..."
 

***

   Povero Occhi-pinti! Aveva un bel ripetere il ruglio dell'orso e del cinghiale, il bisbigliar delle api, lo stridere dei grilli, il gemito della tortora.
   La volpe gli aveva gagnolato una domanda, gliel'aveva gorgheggiata il rosignolo e ululata il lupo e trillata l'allodola:
   "Perché mescoli gli accenti e dici cose tanto strane?"
   Aveva riposto il coltello, gettato agli sterpi il berretto di pelo. Le piume si erano levate in volo, composte in soffice stormo, ed ora aleggiavano sugli apici del bosco, per rendere omaggio a colui che le aveva restituite alla vita dell'aria, alla fine della sua propria vita.
   "Spezzerai le catene della necessità. Ti librerai, al di sopra degli uomini che ti hanno costretto a mendicare, al di sopra del giorno e della notte, del vento e del gelo, al di sopra della tua miseria" pareva dicessero, aliando, con moti ondosi o lineari, contro il cielo, quasi a scrivervi i segni di quell'augurio, di quell'estremo saluto.
   Occhi-pinti si trascinava a stento, trascorreva ore davanti alla grotta, chiuso nel silenzio della meditazione. Il capo gli si reclinava; il mento gli percoteva il petto, s'infossava nella mollezza della carne.
  "Solcherò il cielo sulla zattera delle mie buone azioni."
   Percorse la radura, compì un balzo oltre la riva del ruscello. Sorrise alle piume che, nel suo cammino, lo avevano seguito, con una dolcezza di svolìi, un sussurrar di esortazioni a farsi come loro. Tese il braccio, nel gesto di acciuffarle; e cadde sui ginocchi, in una vertigine musicale, in cui gli uccelli mescolavano il canto col fremito delle ali, il pissi pissi delle fronde, l'affannoso respiro dei suoi polmoni, e una melodia nuova, più insistente, sconosciuta.
   Ogni piuma ondeggiò nella brezza e cadde, rapida, accanto a lui.
 

***


 

   Lungo la via, alcuni dei Verdi e degli Azzurri lo avvisarono che non li attendesse nella radura.
   "Alle sferzate della tramontana preferiamo il calduccio che allevia le fatiche dello studio. Ci affronteremo, se vorrai, a palle di neve, dopo la prima nevicata."
   "D'accordo" aveva risposto, tra i denti, Picchio Spada.
   Era diffuso, nella natura, un sentimento di nostalgia che, piano pianino, con dolcezza e struggimento, penetrava in lui, prendeva possesso del suo cuore.
   Il bosco pareva in estasi e in attesa. Eppure, la voce del ruscello risonava nel chiacchierìo di ogni giorno; l'usignuolo sciacquava le note per essere pronto al concerto della sera, il passerotto ritmava sulla zolla la sua felicità.
   "Ti acchiappo" disse Picchio Spada allo scoiattolino. "No: non ho voglia."
   Era diverso, il bosco: doveva esplorarlo, per riconoscerlo.
   La stagione si era scapricciata a spennellare le foglie degli alberi, aveva tinto i cespugli, lasciato cadere sulla terra gocce e fiotti dei suoi colori. Una fantasia di gialli, di rossi, di turchini vibrava sulle forme, si effondeva lungo i sensi, in un concerto vuoto di suoni, eppure musicale, le cui note granite erano nelle prugnole, nelle bacche purpuree del pugnitopo.
   Avvertì il morso della solitudine. Aveva bisogno di un amico.
   Sarebbe andato a conoscere Noè, il fratellino.
   La determinazione gli diede calore, la leggerezza della gioia. Volse lo sguardo da ogni parte, come a lanciare una sfida ai luoghi sconosciuti in cui si addentrava, come a dire il coraggio di chi, compiendo una missione, è protetto dalla nobiltà del suo proposito.
   Fece una giravolta, un'altra, col volto in su, gli occhi al cielo.
   Lo spazio si dilatava oltre l'intrico della vegetazione; dissolveva lo spessore delle cose, verso i confini dei pascoli bruneggianti e la cima canuta delle montagne.
   Il cuore gli batteva forte. Si arrestò per non cadere. Ebbe pensiero della mamma. Si convinse a scacciarlo. Non gli era, infatti, lecito interrompere un'impresa, il cui coronamento avrebbe comportato, oltre alla sua, l'altrui felicità: quella dei fratelli, ospiti dei nonni, e, in particolare, quella di Noè, e quella dei nonni stessi, poiché avrebbero abbracciato, gli uni il fratellino sconosciuto, gli altri il nipotino nuovo.
   Corse. La pioggia aveva scavato il sentiero per lungo e per traverso. Qualche radice faceva scalino. Ormai, svettava sui rami la montagna; si lacerava l'azzurro fra i vuoti degli arbusti, vi disegnava la profondità del cielo. La vegetazione si era abbassata ad altezza di caviglia; si mostrò a chiazze, tra il grigio delle pietre e il nero della terra.
   Picchio Spada avrebbe dovuto arrestarsi a riprendere fiato. Le gambine gli dolevano, faticavano a reggere il peso del suo corpo. Si piegava, sino a toccare col petto le ginocchia, e aiutava il passo, premendo le mani sulle cosce.
   Si sentì, a un tratto, incapace di soffrire: chiuse gli occhi, assaporò, con pieno abbandono, lo stordimento della stanchezza.
   Sulla roccia risonarono zoccoli di camosci, e il gallo cedrone lanciò il suo grido di richiamo.
   Cadde a sedere. Ammirò la solitudine di Picco Corvo, la maestà del Santomonte, l'audacia della cascata. La discesa dei pascoli precipitava con rapidi sussulti, tra ciuffi e file d'alberi, s'ingobbiva all'incontro con l'altra costa.    Nella piega sostava il sorso azzurro di un laghetto che, nell'attesa di correre a valle, giocava agli specchi coi raggi del sole.
   La volpe si arrotolava ai margini della pineta. Un falco solitario faceva gli avvistamenti, rompeva a picchiate il volo largo. Un cane randagio, dal pelo carbone, annusava il terreno, intorno alla baita e al casolare.
   Picchio Spada si rideterminò a salire. Ogni tanto, un piedino gli scivolava: era pronto a mettere le mani avanti. Si sbucciò un dito: non fece caso alla ferita.
   Già aspro e petroso, il sentiero smarrì, all'improvviso, i propri segni nella rupe. Picchio Spada fu obbligato ad avanzare a quattro zampe.
   Fatica e ostinazione lo condussero sulla cima, a cavallo della montagna. Poté guardare di sopra ai massi e alla vertigine delle balze. La marmotta retroguida scomparve nel rifugio.
   Questo versante era più denso di ombre e aveva il verde cupo.
   All'estremo orizzonte, il sole accendeva le rocce, infiammava batuffoli di nuvola.
   Picchio Spada si precipitò, a rotta di collo, verso la nuova valle. Gli dolevano la schiena e le gambine, ma non riusciva ad arrestarsi.
   Si piegava, era ogni poco per cadere: imprimendogli il contraccolpo, lo salvavano una buca, un sasso, sebbene gli torturassero gl'inguini e le ginocchia.
   Tirava diritto, non aveva la possibilità di deviare o di seguire una pallida traccia.
   Un breve piano gli rallentò la corsa; una china erbosa lo trascinò senza respiro.
   S'infilò fra i larici e scivolò sul fradiciume delle foglie. Gli bruciavano un poco il sederino e il gomito destro. Vide il colle lassù, ben ritagliato contro il nitore del cielo. Si sentiva stanco.
   Capì di avere sbagliato strada. La mamma aveva detto che Selvafolta, dov'era Noè, si adagiava nella valle stessa di Cianciallùga. Doveva affrettarsi sulla via del ritorno, poiché le prime ombre si addensavano. Si mise in piedi. Procedette adagio dalla parte in cui il fianco del monte si addolciva e offriva al passo di chi volesse rimontare, ora la tregua di una fetta di piano, ora il conforto di un avvallamento: sarebbe arrivato al colle, senza spendere eccessi di energia e non avrebbe corso il rischio di andare in giù, invece che in su.
   Gli alberi si sfoltivano. Qualche boleto e più rare mazze di tamburo testimoniavano che di là non era passata anima viva.
   Il bosco terminava ed un'erbetta tenera metteva allegria agli ultimi prati.
   Uscì allo scoperto; e fu come se transitasse dal tramonto all'alba.
   Un capriuolo, assorbito nella beatitudine della masticazione, alzò il capo coronato. Al sapore del trifoglio e della betonica aggiungeva, a larghe froge, i balsami boschivi, composto come un re: non c'era un fremito nell'aria, né alito di vento che gli recasse l'odore di un'insidia; il boscaiolo avrebbe cantato, il cacciatore tradito la propria presenza col calpestio dei piedi e l'ansito del cane.
   "Gli afferro subito la coda. Me ne farò un pennello per spolverare il naso di Noè." La sorpresa lo lasciò di sasso: i capriuoli, si sa, non hanno l'appendice sul didietro!
   Si commosse di fronte alla disgrazia della bestia che la natura aveva voluto storpia e, reso ardito dal dovere di farsela amica, prese la rincorsa e, con un balzo, le fu sulla groppa.
   Il capriuolo s'impennò per scrollarsi di dosso il cavaliere. Fletteva le agili zampe, corvettava, sgropponava, stravolgeva i muscoli e il cammino, ma Picchio Spada, intrecciate le dita e strette le ginocchia alla maniera dei cowboy, non rinculava di un solo millimetro.
   La bestia scavalcò i cespugli, immerse il petto nei ruscelli e nei torrenti, non fu intimorita da cigli, forre, precipizi, improntò il solco e la tenera zolla. Dato fondo ad ogni energia, vacillò, poco dopo, sugli zoccoli e cadde, lunga distesa, sul margine di una strada.
   Volgeva l'ora in cui il battito del cuore metteva voci spaventevoli al soffio della brezza e al respiro della terra, le ombre si facevano paura fra di loro e scorrevano radenti dalla parte della luna.
   Il capriuolo non aveva più timore del piccolo uomo che lo aveva costretto a correre sino allo sfinimento, poiché, rese vicine dalla giacitura, le tempie dell'uno e dell'altro palpitavano insieme, a ogni brusìo d'insetto e stormire di foglia.
   Si alzò. I suoi passi felpati si ritagliarono sotto gli ammicchi delle stelle.
   Un disco arancione li pervase, illuminò a giorno una loro incertezza, fluttuò sopra la bestia, con una intensità di luce che sconvolse la faina e confuse la civetta.
 

***

   "Dunque, che hai combinato, Picchio Spada?" domandò la guardia.
   "Niente."
   "Son disposto a crederti. L'animatore dello spettacolo è questa canaglia. Ma tu hai premuto o no i bottoni?"
   "SS...sì."
   "Bravo! Hai deciso di fare il delinquente."
   "La colpa è mia" confessò Gianni. "Lui è una tortora. Gli ho fatto annusare il pugno sotto il naso e l'ho costretto a seguirmi in questi misfatti".
   "Immaginavo" asserì la guardia. "Non trovi di meglio che salare la scuola e mettere in subbuglio un paese intero?"
   "Non mi sono regalato che mezza giornata di vacanza!"
   "E ieri e l'altrieri? Non hai sonato la musica coi campanelli?"
   "Ho la memoria debole. Me lo dicono in molti, pure la maestra."
   "Te la rinforzo io." E la buona guardia lo gratificò di due strattoni, di quelli che sanno mettere in fiamme, oltre alle orecchie, le guance e le gengive. "Per quanti giorni hai dato calci ai sassi?"
   "Uno... beh... due, con questo. Ieri, avevo scordato a casa i quaderni, i libri e anche l'astuccio: mi mancava il coraggio di presentarmi con la cartella vuota. Oggi, ho temuto che i miei compagni avrebbero riso della mia smemorataggine."
   "E domani?"
   "Il rimorso mi armerà di coraggio."
   "Bene! Due giorni mi sembrano persino troppi."
   "Qualcuno salta tutte le lezioni" protestò Gianni.
   "Chi, ad esempio?"
   "Non per malignare... Il mio papà."
   "E anche la mamma, non è vero?"
   "Sì, che vergogna!"
   "Se è per questo, pure io e Picchio Spada."
   "Vede? E io perché dovrei..." Un'occhiataccia della guardia gli aggelò la frase. "Voglio cambiare. Prometto, prometto" fiottò.
   "Ecco un discorsetto che mi piace. Se ti impegni di non fare forca, di lasciare certe astuzie a riposo..., ebbene, metto una pietra sulle tue marachelle del passato. Ma se ti azzardi a proseguire per la strada che hai intrapresa, ti caccio a scoppole in un istituto che abbia le barre tutt'attorno e una cella in cui si servano il pane e l'acqua sola. E adesso va'." Gianni non si mosse. "Ti ho detto di andare."
   "Non mi allontano che in compagnia del mio amico."
   "Invece, sparisci da solo. Picchio Spada deve tornare a Cianciallùga, dove l'attendono i genitori. Ho inviato un telegramma."
   "Mi permetta, almeno, di abbracciarlo."
   "Non più di un minuto", concesse, e lasciò libero Picchio Spada.
   I due si strinsero in un amplesso di amicizia da far scoppiare il cuore: si baciarono, piansero lacrime che disegnavano caldi rigagnoli giù per le gote.
   "Addio, Picchio. Non ci rivedremo più."
   "Più" ripeteva, fra i singhiozzi.
   Il dolore fu contagioso. Anche l'uomo ebbe le ciglia umide; e, per nascondere il turbamento, prese ad armeggiare con la pipa, a strofinare uno zolfanello sotto la suola della scarpa destra.
   Gianni fiatò negli orecchi del compare le parole che muovono, insieme, alla speranza e all'allegria.
   "Se fuggi con me, ti porto allo zoo. Vedrai i più simpatici animali."
   "Anche il leone?" domandò Picchio Spada.
   "Certamente."
   "E la tighe?"
   "Si dice tigre. Sì sì. E la giraffa, il lupo, la pantera... Tutti i bipedi e i quadrupedi."
   "Ss...scappiamo" propose Picchio Spada.
   "Via" lo incitò Gianni Computer; e i due si salvarono con le proprie ombre, prima che il signor Antonio (così si chiamava la guardia) si accorgesse di essere lasciato in asso.
   "Me l'han fatta; ma li acciufferò" si promise, soffiando, traverso le nari, due fili di fumo.
   Un randagio a quattro zampe, costretto, suo malgrado, a ricercare l'osso quotidiano, li scambiò per spiriti di acchiappacani cui mancasse l'ultima cattura e, senza riflettere, com'è abitudine degli animali, rovinò con un tuffo in una pattumiera a portata di muso.
 

***

   Entrarono, con l'aria candida, il sorriso appiccicato sulla bocca, come visitatori armati di biglietto, dove si allineavano le gabbie dei più fieri animali della terra, tra l'inarcarsi delle groppe, lo sbadigliare delle fauci, l'acciambellarsi della leonessa, la pantera che si stira, il giaguaro in preda all'impazienza, il lupo cerviere, la tigre ammaliatrice, in mezzo al campionario di esemplari cui è bene non stringere la zampa a domandare se soffrono d'acciacchi o di costipazione o se crepano piuttosto di salute.
   Appoggiato alla barriera, col visetto tra le palme e tanto d'occhi che parevano cadere, Picchio Spada stentava a credere, davanti alla scena della tigre bighellona, che esistesse un gatto di simile grossezza e di un così bel pelo; e sarebbe saltato di là dall'inferriata, se un guscio di nocciuola non lo avesse colpito al centro della nuca e non gli avesse fatto volgere la testa. Quello che vide gli suscitò una risata più argentina del tintinnare dell'argenteria.
   Un macaco, gonfio di collera, balzellava qua e là per i sostegni, sull'altro lato del serraglio, azzuffandosi con una palla e agitando il pennello che gli cresceva sul fondo della schiena. Si piegò, con gesto improvviso, sul pavimento a raccogliere i rifiuti della colazione e, venuto avanti, sporta la zampaccia, fece completa pulizia verso la testa altrui.
   Poco propenso a lasciarsi ridurre al rango di bersaglio, Picchio Spada prese a restituire i proiettili, a colpo a colpo, senza scordarne e aggiungendone, anzi.
   La schiera di scimmie, ospiti della fila di gabbie, si era assiepata contro le sbarre, con bocche e bulbi degli occhi in preda alle convulsioni.
   In un amen, tutta la compagnia si arruolò nell'esercito. Manciate di gusci solcarono l'aria e colpirono in più parti l'intrepido guerriero.
   La gragnuola mise le fiere in agitazione e suggerì a Gianni Computer di sollevare i tacchi e rincantucciarsi oltre l'uscita.
   Sotto la nuvola delle pallottole, per scansarne quante più poteva, Picchio Spada cominciò a danzare, a rotolarsi in terra.
   È arcinota l'inclinazione di quegli animali a contraffare l'uomo.
   Babbuini, bertucce, cappuccini, cercopitèchi, mandrilli e platirrine - tutta la genìa delle scimmie, insomma -, come a un segnale, interrotte le ostilità, si abbandonarono a un rimescolìo generale, a un pandemonio di membra e di capocchie. In breve: la turba vociante e pelosa si credette, tutt'intera, al festival.
 

***

   Una massa grigia, areata da un ventaglio sul davanti, tutta grinzosa, si era mossa, oltre un recinto di pali e di stecconi. Suscitava, al primo incontro, simpatia e voglia di conoscerla.
   "È un elefante" disse Gianni. "Ce ne sono altri tre, meno grossi: i suoi figliuoli."
   Mostravano un'aria intelligente, quasi umana, il desiderio di sgranchirsi e di giocare.
   Se avesse avuto tre bestie di quella misura, chi sa come sarebbe stato contento babbo Francesco. Avrebbero messo a soqquadro la mangiatoia, ma regalato latte a fiumi, tanti secchi che, a portarli fuori dalla stalla, non sarebbero bastati il tempo né l'aiuto dei fratelli.
   Resi arditi dall'agilità, si spingevano sopra il fossato e, varcando la barriera con la proboscide distesa, sciabolavano foglie e rametti dell'unica quercia, ne facevano sciupìo. Piegavano il tubo del naso, sino a portare alla bocca la verdura, sventagliavano le orecchie, socchiudevano gli occhi, sull'indifferenza dei passeri e la curiosità di qualche visitatore.
   "Si stuzzicano l'appetito" spiegò Gianni.
   Se avesse dato retta al primo impulso, Picchio Spada si sarebbe arrampicato su per quel loro naso.
   "Mi piacerebbe ss...scherzare con loro" disse.
   "Hanno il difettuccio di pesare da elefanti e, se ti cadono addosso, ti assottigliano come una cartolina."
   Benché si movessero con tanta scioltezza, erano dei bestioni, davanti ai quali avrebbe fatto una pessima figura la Mora, la mucca regina di Cianciallùga.
   "Che coss...sa fa il gigante?" domandò.
   "Fiuta il vento con la proboscide."
   "Entriamo a vedere. Voglio toccarlo." Scavalcò la steccionata, scese nel fosso e si arrampicò su per il ripido. "Femminuccia, vieni anche tu."
   "T'insegno io...", minacciò Gianni. Fece l'atto di alzare la gamba, ma gli mancò l'ardire di mandare ad effetto la promessa.
   "È divertente" disse Picchio, mentre, difilato, andava a toccare la proboscide dell'elefante anziano. L'aspetto pacifico smentiva la minaccia della corporatura, faceva prevalere, sopra la meraviglia, un sentimento di simpatia e persino di tenerezza. "Mi piace" soggiunse. "Ha la pelle dura. Le orecchie ss...sembrano due coperte." Raccolse una manciata di foglie e le offrì alla bestia nel cavo delle mani. Il pachiderma allungò l'appendice del muso, si servì e, sbuffando con un sibilo leggiero, porse il suo ringraziamento. "Hai viss...sto com'è contento?"
   "Per conto mio, non mi fiderei."
   "Ti ass...spetto. Coraggio!"
   "Non ti accorgi che sono occupato?" disse con malgarbo; e finse di allacciarsi le scarpe, mosso dalla volontà di protrarre l'operazione, sino allo scoppio di qualche nuovo evento.
   Non dovette attendere molto, perché una morsa gli si serrò sulla collottola.
   Rimase a schiena curva, braccia penzoloni, gamba piegata come un'elle sospinta con un soffio dalla pagina.
 
 

***

   Picchio Spada mandò a dire che il ritrovo era nella radura.
   I Verdi accolsero l'invito come un ordine del proprio generale: si guardarono bene dal discuterlo; anzi, l'ex-comandante della truppa si stropicciò le mani.
   "Ci andremo", impose il capo degli Azzurri. "Non possiamo permetterci di lasciarlo convinto che siamo conigli. Ci batteremo a palle di neve" asserì, dall'alto della sua lungimiranza e autorità. "Precediamoli nel bosco e disponiamo, secondo una mia strategia, numerosi mucchi di pallottole: daremo vita a un fuoco di sbarramento che impedirà qualsiasi avanzata e, non appena il loro entusiasmo si sarà affievolito, scatteremo all'offensiva. Il nostro obiettivo sarà la cattura di Picchio Spada. Glielo restituiremo, soltanto a certe condizioni." Si compiacque di una così mostruosa intelligenza. "Ci accontenteremo di picchiarlo, a turno, sulla testa" soggiunse, poco dopo, per fare una concessione alla truppa sanguinaria. Attese l'applauso che, infatti, non tardò.
   "Il difficile consisterà nel prenderlo" fece notare un subalterno. "Non potremo ridurlo alla nostra mercé, lanciandogli un fischio o sgrillettandogli il dito sotto il nasino." La coscienza di avere tinto d'ironia le ultime parole gli provocò sul volto un dilagamento del pallore e, lungo le gambe e il resto del corpo, un attacco di tremarella, accentuata dall'occhiataccia che il capo gli rotolò addosso, dallla testa ai piedi.
   "Dovrei meravigliarmi, se non riesco a vincere una battaglia? Comando un esercito di rape. Gli tireremo da più parti e di seguito, per disorientarlo e, poi, a imitazione dei giocatori di rugby (spero li abbiate veduti almeno alla tivù), lo placcheremo tutti insieme."
   Si divisero e si diedero convegno in un certo luogo, per una certa ora.
   Era nevicato tutta notte, e il bianco della neve si era disteso come un lenzuolo fresco di bucato.
   I primi a lasciare le peste sul sentiero furono gli Azzurri. Andarono di fretta, in silenzio, l'un dietro l'altro, con una disciplina e una voglia di menar le mani da mettere invidia agli Spartani.
   Scoperto di essere stati preceduti, i Verdi si diressero per la campagna, lungo un giro vizioso che, se pure li affaticò, li sottrasse ai pericoli dell'imboscata.
   Dopo un rapido esame del terreno, gli Azzurri si arroccarono a Nord della radura, dietro un avvallamento; si divisero i compiti - da una parte, gli artificieri, agli ordini del vice-capo; dall'altra, i genieri, sotto il pungolo e il controllo del generale - e si buttarono al lavoro, con un fervore degno di ben più nobile applicazione che non fosse l'approntare proiettili e difese.
   "Perché, capo, non possiamo farci una cantatina?"
   "Nasconditi e poi sbraita. Capirai da solo. Mi raccomando, ragazzi, non guardate dove va."
   Si alzò, poco dopo, dagli intrichi incanutiti dei cespugli, una voce franca da ogni stonatura e risonante di allegria. A un cenno del generale, si abbatté sul bersaglio una bianca fucileria, facendone schizzare fuori il canterino, madido e sconvolto, ma erudito circa l'opportunità di ammutolire per la durata dei preparativi.
   Il capo, tra le risa, gli predicò in rima: "Non hai capito che pure una canzone/ può denunciare la nostra posizione?".
   I Verdi, che proprio allocchi non erano, profittarono di quel baccano per scoprire le coordinate del nemico e si attestarono sull'altro fronte. Approntarono anch'essi, senza menare il can per l'aia, i baluardi e un confacente munizionamento. Qualcuno si azzardò a tracciare un piano di battaglia, ma un paio di ceffoni dell'ex-capo che, se pure declassato ad aiutante, non aveva ridotto l'insofferenza per alzate di testa o libere iniziative, lo ricondusse al rango di subalterno semplice.
   "State al vostro posto, ragazzi, altrimenti vi degrado a muli. La strategia è compito di Picchio Spada."
   Serpeggiava un certo nervosismo: un esercito senza generale vale quanto un corpo senza testa. Sguardi inquieti sciabolavano le prominenze e i cumuli di neve. Non si scorgevano i nemici. Eppure, un richiamo sommesso, talvolta, un parlottìo riempivano l'attesa di tensioni e di paure.
   "Chi si allarma non ragiona" disse l'aiutante dei Verdi. "Primo: non sono ben certi che siamo qui. Secondo: quei fifoni non sanno che ci manca il sostegno del nostro condottiero." Queste argomentazioni placarono l'inquietudine o, meglio, infusero la fiducia nella tutela di Picchio Spada.
   Il capo degli Azzurri indicò, in quel mentre, i mucchi delle munizioni apparecchiate.
   "Non tiratele a casaccio. Chi vuol sopravvivere prende la mira. I disertori saranno abbattuti sui due piedi dal plotone di esecuzione." Lanciò un pissi-pissi alle due sentinelle che sbirciavano traverso la forcella di un tronco biforcuto.
   Entrambe scossero la testa: si tranquillizzassero i commilitoni, perché il nemico non dava segni di vita; insinuarono il dubbio che avesse disertato il campo di battaglia.
   Non videro, ma furono scorte. Le acute pupille appartenevano a un pioniere dei Verdi, sollecito nel riportare gli indizi.
   "Aiutante..." Tenne la voce al livello del sussurro. "Aiutante..."
   "Cuciti le labbra, bestia" gli rispose l'interpellato.
   "Che ci sto a fare, qui, in avanscoperta, sepolto nella neve?"
   "Dimmelo tu."
   "Avvisto e riferisco."
   "Allora parla."
   "Due Azzurri si sono appostati in osservazione."
   "Che cosa aspettavi a dirmelo? Che ci sbattessero il naso contro?"
   Il pioniere consigliò a se stesso un po' di calma e molta rassegnazione.
   Picchio Spada, frattanto, si stava avvicinando, in compagnia di Noè, persuaso che, innervositi gli eserciti e ispirato ad essi un timore reciproco, l'attesa li avrebbe resi arrendevoli alla sua volontà. Giunto al margine della radura, fece cenno al fratello di abbassarsi.
   Cominciarono un'avanzata da lucertole, sino a un avvallamento che si abbozzava appena tra gli eserciti. Scavò nella neve due fori che potessero usarsi come spie, uno per parte, e invitò il fratello a guardarci attraverso. Noè spinse la testa nel pertugio puntato verso il Nord, sino a quando non fu più in grado di addentrarcisi e fece uscire un grido soffocato: "Non ci vedo proprio niente. Che porcheria!".
   "Capo,", diceva nello stesso istante uno degli Azzurri, "ho le mani così fredde che mi scotto le dita al solo sfiorare la neve. Mi sembra di reggermi, non sulle gambe, ma su due ghiacciuoli."
   "Se non si decidono loro, attaccheremo noi. Qui si salva l'onore, costi quello che costi."
   Ci fu chi volle fare lo spiritoso: "Non toccatemi il borsellino".
   Il capo lo cercò con gli occhi.
   L'esercito era in fermento. I primi sintomi dello scontento vaporizzavano nella sbuffata e, fuori visuale dello stratega, rumoreggiavano nel brontolìo. Qualcuno batteva i piedi, non solo per contrastare l'arrivo dei geloni.
   "Aiutante,", apostrofò uno dei Verdi, "il generale ci ha presi per i fondelli: scommetto che si diverte da un'altra parte".
   "Avvicinati." Gli calò sul viso il piatto della mano. "Intanto, stropiccciati la guancia; poi, faremo i conti."
   "Li hai già fatti, mi sembra."
   Picchio Spada mise l'occhio davanti a uno dei fori o, come diceva lui, a uno dei cannocchiali, per esplorare le difese del suo esercito. Si ripeté che i gropponi e le teste sapevano offrirsi bene alla mira del nemico. Cambiò posto e cannocchiale. Gli Azzurri avevano disseminato di vedette le proprie difese, ma, ogni poco, sorgevano a grappoli o punteggiavano di volti il candore della spianata. Stupì di non vederli balzare fuori, a valanga, nell'impeto dell'assalto.
   "Sei poco furbo,", fu lesto ad osservare il fratello, "perché, se tirano, ce le prendiamo tutte noi, le palle".
   "Ehi, da quella parte..." La voce traversò al galoppo la radura. "Il vostro capo ha le gambe di pasta frolla? Se lo mandate qui, pensiamo noi a puntellargliele con un paio di grissini."
   "Crrr..." rispose con eloquenza spartana l'aiutante. "Capitatemi a tiro di pugno e..."
   "Cala le arie, altrimenti ti sgonfiamo noi."
   Balzò sulla trincea, infocato negli occhi, teso nei muscoli, pronto all'offensiva.
   "L'insulto si lava con la neve. Miei prodi, avanti!"
   "Sono cavoli tuoi" gli disse qualcuno dal didietro.
   "Che cosa?"
   "Parlavamo di verdure."
   Si volse per stringere in una occhiata di riprovazione i volti che immaginava impavidi, ma non vide altro seguito che la sua ombra.
   "Mi batterò da solo."
   "Pensi che il generale ti approverebbe?" chiese un gregario, dal fondo della trincea, raggomitolato, con le mani sotto le ascelle e il mento tra le ginocchia. "Brrr..."
   "Giusto: potrebbe aversela a male. Ehi, voi, manica di smidollati" gridò, retrocedendo, piede dietro piede. "Vi salvate, grazie al mio senso della disciplina."
   Dall'altro fronte gli risposero con i pernacchi.
   Fu sul punto di rivelare l'assenza di Picchio Spada, per sottrarsi all'infamante accusa di essere un vigliacco. Per sua fortuna, scivolò e cadde riverso, al riparo. Lo accolsero con un sospiro di sollievo.
   "Peccato", disse Noè, "che l'aiutante non abbia attaccato il nemico: l'avrebbero trasformato in un bamboccio di neve. Che si fa adesso?".
   "Aspetta e guarda" rispose Picchio Spada. Si erse con l'imponenza dell'animo più che del corpo.
   Le sentinelle degli Azzurri si staccarono dall'albero, dietro al quale si erano appostate, e s'infilarono nella trincea.
   "È sorto dal nulla" gridò una di loro, con una incrinatura nella voce.
   "Chi?"
   "Lui!"
   Balzarono in piedi e si affacciarono dal mento in su. Mandarono gli occhi a spasso per la radura e rimasero increduli al primo scorgerlo, rimpicciolito dalla distanza e dalla bianchezza del luogo, palpito di vita, che, materializzatosi, vivesse nella precarietà del suo essersi fatto carne, in mezzo alla desolazione dell'inverno. Uno strano sgomento si insinuò nelle vene, cagionato dalla sproporzione tra la forza numerica fortificata e quel nemico solitario che l'affrontava con tanta esilità di membra e carestia di armi.
   "Fatevi furbi" disse il capo degli Azzurri. "Non è nient'altro che un tranello dei Verdi. Si aspettano che ci precipitiamo allo scoperto, per subito piombarci addosso e metterci in ghiacciaia. Ehi," gridò, facendo imbuto con le mani, "venite a riprendervi la mascotte, prima che una mia soffiata la sollevi in volo"; ma l'ardire delle parole gli aprì le cateratte della sudorazione.
   I Verdi si riscoprirono con le teste in linea, come birilli, sopra il rialzo. Fecero leva sulle braccia e sulle gambe, tutt'insieme, e, nello stesso istante, si ritrovarono di petto alla minaccia del nemico. La speranza ingigantiva le proporzioni della figura a cui li volgeva il deferente amore: svettava contro il cielo, davanti alle sue truppe, Picchio Spada, torre ospitale e baluardo inespugnabile.
   "Attaccano, comandante."
   "Non penserete che abbia perso gli occhi?!" Una ruga increspò la sommità del naso al capo degli Azzurri.
   "E allora?" domandarono.
   "E allora allora... Vengono avanti sprovvisti di pallottole!"
   Un'esclamazione corale diede il suono appropriato alla sorpresa e alla incredulità.
   "Meglio così" disse l'addetto alla sussistenza. "Ce ne facciamo un boccone solo, pur che non siano indigesti."
   Ignorò quella battuta, il capo, afflitto dalla perplessità, avvilito dal timore.
   "Non capisco quale diavoleria possa esserci sotto. Per disorientarli, avanziamo senza armi pure noi." Gli Azzurri scattarono dalle postazioni e mossero con disciplina di falange, a un suo segnale.
   L'intervallo fra le schiere si andava riducendo; già, i fiati di una parte si univano a quelli dell'altra, mentre gli sguardi si scontravano con gli sguardi.
   "Alt!"
   Un branco di corvi si levò in fuga, e la distesa, come rabbrividendo, soffocò nell'ovatta l'estrema eco: era risonata, sui gridi e gl'incitamenti, la voce di Picchio Spada.

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