Da L'Incubo del ritrattista (in "" [diritti riservati]):
Non dubitò,
il nostro, d’interpretare al meglio l'assioma di Kandinskij, suo unico vate:
l'immagine astratta doveva imparentarsi agli archetipi sussistenti nella
mente cosmica, essere pura idea, smaniosa di concedersi alla percezione sensibile
e costretta, pertanto, a contaminarsi con un grumo di materia cromatica.
Mise al
bando, va da sé, ogni figura riconoscibile.
Certo,
avrebbe raggiunto la perfezione, se fosse riuscito col suo intervento pittorico
a imitare la tela vuota, ma questo risultato si poneva di là dai limiti
umani.
Occorreva
un alito di colore, un nonnulla segnico, un pallido alcunché sbocciato
a confine fra l’essere e il non essere. Ecco un paradosso e un rebus per
la vita.
Si capisce
che ogni composizione gli richiedeva un interminabile studio preparatorio
e una altrettanto lunga fase esecutiva. Il numero delle opere aveva una crescita
lenta. La media era di una, ogni circa due, tre mesi.
L'impegno
mentale, quasi una tortura dello spirito, lo istradò sulla via di
un apprezzabile compromesso tra il suo alto concetto dell'arte e la possibilità
di riversarlo nell’oggetto pittorico. Il rifiuto di ogni pur minima eco della
realtà non poteva condurlo, si ripete, alla disgregazione totale,
delle forme. Non può esserci dipinto che non imprigioni un'ombra
di questo mondo sensibile, non abbia almeno un esile impianto geometrico,
un incerto segmento capace d'interessare un Pitagora o un Euclide. Il tentativo,
ad ogni buon conto, di eludere le forme banalizzate dall’esperienza produceva
il risultato di offrire vago contorno a qualcosa che nello sforzo di non
esistere inclinava ad assumere un aspetto tanto lontano dalla realtà
da doversi definire, in rapporto a quest'ultima, repellente e mostruoso,
benché tenesse avvinti gli sguardi e operasse sugli animi una sorta
d'incantesimo.
Da L'ibi, ovvero il riscatto del peccatore fallito (in ""[copyright]):
Il venerdì
successivo, la discussione s’incentrò su due omicidi susseguitisi
alla distanza di un mese. L’ultimo, avvenuto due giorni prima, trovava ampia
eco nei quotidiani e riempiva addirittura le pagine locali. Le vittime erano
ragazze sulla cui moralità qualcuno sollevava dubbi, abitanti in paesi
limitrofi e note in zona. Entrambe strangolate, recavano sul corpo la firma
della mano assassina che, a delitto compiuto, si era divertita a rasare loro
il pube con un rasoio "usa e getta", "lasciato poi", secondo la frase di
un cronista, non immune da tentazioni poetiche, "a manico all’ingiù
dov’era stato il lato superiore dell’intimo giardinetto". L’indomani del
primo crimine era rimbalzata l’ipotesi che il responsabile si dovesse individuare
in un amante tradito. Ora si paventava che il gesto ripetuto segnasse l’entrata
in scena di un ennesimo serial killer.
"Sta’
a vedere che lo conosciamo; beh, almeno qualcuno di noi" disse Edmondo nel
pieno della conversazione.
Intervenne
Francesco con una delle sue battute giocate tra il serio e il faceto. Si
rivolse alle cinque o sei donne presenti. "Attente, signore! Non è
escluso che lui, l’infame, stia acquattato qui nei dintorni in attesa che
una di voi esca da sola. Rincasate in compagnia dei vostri uomini." Sorrise
e lasciò intendere, per come sporse il capo in avanti e volse gli occhi,
che si accingeva a tirare in ballo il commensale seduto tre posti più
in là, sulla destra. Dovette sospendere un attimo il discorso per
impedire che si accavallasse la sua alla voce di Edmondo, balzata lungo la
tavolata a pieno volume per giungere chiara a ciascuna delle destinatarie.
"Più che la fine, dovete temere lo sfregio. Quello dissacra la vostra
femminilità." Francesco rise con gli altri e soltanto dopo un pugno
di minuti, occupato da una girandola di frizzi e da espressioni di varia giocosità
cui non rimase estraneo, riuscì a indirizzare la parola. "Se gli assomigliassi,
non ti si potrebbe definire peccatore fallito. Avrei un’idea" soggiunse,
appena riuscì a perforare la barriera del chiacchierio. "Perché
non fingi, eh, Calogero?, di essere lui. Si dice che l’assassino torna sempre
sul luogo del delitto. Ebbene, tu fatti vedere spesso dove hanno trovato
i cadaveri. Chi sa che la polizia non ti schiaffi dentro. Voglio poi vedere
se Amilcare osa ancora trattarti da persona insipida, anzi inerte, quanto
a moralità e a iniziativa nei domini del male. In pratica, invece
dell’alibi che in latino significa "altrove", ti crei il suo opposto, ovvero
l’ibi, cioè "là", "ivi", in quel luogo. È un mezzo di
prova di cui il sospettato di solito non si avvale. Cerchi, insomma, di alimentare
il sospetto che stavi proprio sul posto, quando si sono compiuti gli ammazzamenti."
Finse di avere parlato con serietà.
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