Il velluto di Utrecht può considerarsi un giallo metafisico. Il ricercato, meglio la ricercata, è l'anima. Chi, il segugio, il Maigret della situazione? Il lettore stesso, invischiato in vicende che si appellano alla sua ragione e sensibilità.
Il Velluto è, altresì, un romanzo filosofico che affronta svariati temi, svolti con il rigore di una logica affrancata dai luoghi comuni e dalle opinioni prese a prestito fuori dalle avvertenze della riflessione personale. Se ne indica uno per tutti: il concetto di autenticità. Ricordate la "beffa di Livorno"? In quella circostanza, Argan, lo storico dell'arte, vide le pietre scalpellate e disse: «Queste teste sono autografe, ma non autentiche.» Preso anche lui nella rete di un credenza metropolitana - "Modigliani insoddisfatto di alcune sue sculture le ha ripudiate, gettandole nel canale" -, attribuì i manufatti all'intervento scultoreo del grande Livornese, ma non vi rintracciò un segno, un indizio che li ponesse in rapporto con la poetica, le idealità artistiche del creduto autore. La successiva scoperta dell'inganno teso ai soloni della critica d'arte lasciò indenne la credibilità del nostro storico e offrì nuova occasione per riflettere sulla nozione di autenticità.
Si racconta di una Inglese che in stato di trance componeva sinfonie. Queste, passate al vaglio degli esperti, risultarono così intimamente caratterizzate da non potersi non attribuire alla possente creatività e ai meccanismi compositivi di un grande della musica. Quella donna era digiuna di ogni conoscenza musicale e dichiarava di scrivere sotto dettatura del grande compositore. Ne era, per così dire, la longa manus creativa. Ecco un caso, deducibile dal pensiero di Argan, di autenticità, in assenza di autografia. Con altre argomentazioni e in epoca anteriore alle tesi dello storico, alcune sottaciute, benché implicite, a quale approdo concettuale giunge l'autore del romanzo?
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Dionisio Da Pra:
      Un congesto accorrere di umori, qua e là, per il corpo gli destò una smania improvvisa di uscire, di confidare il brulichìo dei pensieri all'abbraccio mormorante della notte.
Non mancò, nell'avviarsi, di considerare l'ingordigia con cui, da un po' di tempo, usava dei suoi organi di senso. Chiuse gli occhi. Sapeva penetrare un'estrema profondità di suono, scovare un fievole scricchio o sussurro, circoscriverlo nella polifonia folta quanto minima delle cose, avvertire ogni sotteso palpito di vita. Era un esercizio affaticante. 
Si ritrasse nell'angolo che Nancy aveva definito il "nostro comune pensatoio". Una panchina e alcune siepi ne facevano un luogo cortese e raccolto. Si sarebbe smarrito volentieri nella memoria, ma, per quanto suppliziasse le meningi, non riusciva a ricomporre il tessuto dei ricordi. Lo sapeva di felpa carezzevole, pregno di fragranze, prodigo di tepori. Un balenante volgere di visioni non seppe consegnargli una sola immagine. 
Faticò a levarsi in piedi. Si sentiva indolenzito, fino alle radici profonde dell'essere. La certezza che avrebbe riavuto Nancy, l'indomani, gli suggerì di coricarsi. Lo trattenne uno sbocciare sparso di luci lungo il viale. 
La ragazza si profilò accanto all'orlo della piscina. Qualche luccicore sulla pelle e tenui ombre vestivano le membra nude. X ne aveva seguito l'incedere molle, turgido di pigrizia, l'ondeggiare delle anche. 
Si era messa coccoloni, con le ginocchia a un soffio dall'ammattonato, le braccia volte al suolo, le dita delle mani a far da puntello. Fu ritta, per una improvvisa euforia. Tese il collo, sollevò il petto e, levate le braccia a forca, fletté a sinistra e a destra il busto, più volte, in rapida successione. Saltellò a piedi uniti, in tondo e all'indietro e su per i pioli del trampolino. Rapita da una ebbrezza musicale, sciolse la flessuosità del corpo nell'impeto di una danza volteggiante, la contenne nella compostezza leggiadra di un "croisé‚ derrière" e, trovati la misura del passo e l'equilibrio, seppe condurla ai fastigi della suggestione in un rotolare aereo, spezzato da un protendersi fulmineo, a pelo dell'acqua.
X venne avanti, rasente ai tralci, dal fondo della spalliera: i gelsomini agitarono, come al saluto della brezza, i fiori stellati. 
Prossimo alla vasca, ebbe, dapprima, non più che la percezione di un'ombra guizzante. Distinse, poi, qualche particolare: il tondo delle spalle, i fianchi che il premito del ventre e la gonfiezza del torace assottigliavano, le natiche accresciute dalla positura. L'appagamento estetico gli evocò alla mente un dorso di delfino, e questa viva immagine del ricordo gli ricondusse un odore di salmastro, un respiro di onde, rabbuffate da venti costieri. 
Si domandò con quale diritto frugasse l'intimità che una giovane donna effondeva per sé, fuori di ogni sospetto. Si sentiva più incline all'estasi che all'eccitazione, portato a vivere i momenti assoluti dell'esistere, come se i turbini, le bufere che abitano la nostra suscettività emotiva, nel suo spirito si fossero acquetati. 
La bizzarra nereide, frattanto, era scomparsa. Riapparve in un vortice di bolle. Sfrecciava, a capo sommerso, il collo a vomere; rompeva il ritmo delle braccia, si ravvolgeva a ruota, in un variare continuo dell'ampiezza e della velocità di quelle capriole. Si affidò, supina, a un movimento lieve delle dita. 
A un tratto, girò su di sé, intorno all'asse del corpo, i pugni a pigiare il ventre, e, sopraffatta dalla fatica, allungò le braccia all'indietro; le sollevava e riabbassava in languida cadenza e, con uguale torpidità, apriva e richiudeva, a forbice, le gambe. Partiti in soffici matasse, sciolte sull'acqua, i capelli accentuavano, con quella apparenza di abbandono, un estro malizioso impresso sulle labbra. 
Venne alla deriva, e risalì d'impeto la scaletta. 
X si era ritratto a tempo: poté, non veduto, rallegrare gli occhi nella visione, seppur rapida, di un profilo intero di donna, consegnato all'incantesimo di rispondenze mirabili e di una scioltezza non inibita; rugiadoso e fulgido, nell'alone di cui la galanteria di un faretto stagno lo circonfondeva; e, mentre la profondità del patio inghiottiva il battere dei piedi sul selciato, ebbe ancora il conforto di quella apparizione, trattenuta sulla retina per un'estasi dei riflessi.
Sbirciò l'orologio e convenne che la pesantezza delle palpebre era più che giustificata. Incamminatosi alla villa, svoltò a destra, tra le rocaille fiorite. Attribuì la stramberia ai mancamenti della coscienza con i quali il sonno orchestra i suoi preludi.
Distratto da un riverbero dello stagno, vagò con gli occhi fra le geometrie logistiche delle ninfee: l'oscurità le assomigliava a minuscole navi, ciascuna al suo punto di fonda, garantito dal buio e dalla bonaccia; un ranocchio faceva la scolta, pirata o filibustiere a cui il silenzio e i fumi del rhum strappavano il gutturale malinconico, l'inizio incerto di un ritornello disseppellito. Potate a palla, le acacie moltiplicavano il plenilunio, dietro il pergolato e oltre la siepe di tuia. Gli avvenne di chiedersi in quale misura Nancy avesse influenzato l'opera del giardiniere.
Era giunto al chiosco orientale e, d'un balzo, ne salì i gradini.
Lo sguardo corse alla finestra, distante non più di quattro o cinque metri dal parapetto e prospiciente un nulla più in basso del luogo rilevato sul quale riceveva appoggio il padiglione. Udì la doccia crosciare. Nella camera, immersa nella penombra, le sagome dei mobili mettevano in scena capricciosi inganni. Un fascio di luce investì la pettiniera, e il volto della ragazza, come l'avesse generato l'efflusso stregato di una lusinga interiore che surrogasse le opache seduzioni della realtà si scapricciò, dentro lo specchio, in qualche sequenza rimirante.
Ritto dove non sarebbe dovuto essere, godeva l'attesa del guardone schizofrenico, sciolto da ogni repugnanza per la propria meschinità, gratificato, al contrario, da un brulicare elettrico di sensazioni. Il genio dello scienziato interpretò la propria parodia: mimando stigmate del pensiero, le palpebre scesero a serbare un'immagine, non molto idonea ad essere lievito di riflessione, e a consentire che il desiderio la delibasse.
La ragazza aveva messo la camera a buio. Si materializzò di nuovo, prima che X, timoroso di essere veduto, fosse in procinto di ritirarsi: inginocchiata sul letto, rigettava all'indietro, scotendola, la testa e si asciugava i capelli con uno strofinìo pigro dell'asciugamano. Una luce soffusa - il lume sul comodino - ne ombrava il viso e avvolgeva il corpo in una diafana trasparenza dei contorni, incurvati ai margini dei seni con incantevole sobrietà, sinuosi all'ampiezza dei fianchi e indefinibili nell'arco tra le cosce, dove - spettacolo insieme impudico e virginale - l'aerea biondezza del pelo si accotonava in un chiarore di sole nascente.
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