Io, Maddalena? è la storia di un giovane destinato a diventare un grande ritrattista. Lo connota una particolare sensibilità, la rara virtù di riuscire a calarsi nell'intimo delle sue coetanee e di renderlo visibile attraverso la rappresentazione dei loro tratti fisionomici. Il protagonista vive una storia d'amore ricca di momenti emotivi come si conviene quando gli ormoni compiono il proprio dovere. Bella, matura, persino materna, è la sua ragazza. Qualche sorsata di erotismo non corrompe il garbo della vicenda. Il giovane non trascura di renderci nota la concezione che ha dell'arte e, del resto, la invera nella sua opera.
Le pagine offerte in lettura sono tratte da Io, Maddalena?[copyright]di
Dionisio Da Pra.
  Quella notte ebbi gli incubi. Sognai che mi trovavo per strada in pieno giorno ed indossavo la sola canottiera. Me la tiravo con entrambe le mani sul davanti per coprire le parti che mi esiliavano agli antipodi del mio ideale. Gli attributi mascolini crescevano, allontanavano, beffandosene, i miei pugni contratti nello sforzo di mascherarli, fuoriuscivano da quello schermo che mi ostinavo a tendere e vedevo accorciarsi, a misura del mio desiderio di allungarlo. Su entrambi i lati, un ammonticchiarsi inverosimile di vetrine, un germinare l'una dall'altra, come se fossero riflesse in un diamante dalle innumerevoli sfaccettature, propagava il caricaturale rifiuto della mia mascolinità, le impudiche, umilianti esibizioni del mio ammennicolo. Non ero uno, ma una moltitudine, sebbene la riproduzione della invereconda proboscide mi paresse ancor più strabocchevole della mia stessa immagine.
   Gli sguardi di una folla ridotta a una selva d'occhi si posavano su quella appendice moltiplicata, esacerbavano il mio sconforto, la mia vergogna, mentre un'eco rifluente con implacabile monotonia ripeteva la perfida condanna: "Non pensare di essertela cavata". Giusy comparve sullo sfondo, piccola, appena visibile; venne avanti, ingurgitando l'occhiuta marea e facendosene carne, sostanza, dal momento che, nel suo procedere vorace, occupava lo spazio gremito, invadeva gli specchi molteplici, li frantumava con il suo fulgore di adolescente. Alla fine, rimase solo lei.
   Il mattino successivo, ebbi qualche indecisione, prima di raggiungere la mia compagna. Rimasi a sbirciarla dall'atrio, al riparo di un pilastro. Mi parve più bella del solito, più invidiabile. Godettti della tranquillità che illuminava la sua attitudine d'attesa. Qualche dolce pensiero le accendeva un sorriso. Mi augurai si crogiolasse nella certezza di rivedermi, ma, appena le scorsi sulla bocca come un palpito malizioso, un troppo ilare increspamento, temetti volgesse al ridicolo l'episodio che mi aveva messo in subbuglio e a causa del quale ora nicchiavo. Girò, a un tratto, gli occhi dalla mia parte e mi raggiunse col più squillante accento di sorpresa: "Che fai?", e diede in una risata.  Ancor prima che accennassi a muovermi, era in rotta di collisione e venne ad abbordarmi, bacio in resta, contro la fronte. È probabile cogliesse quell'approdo di materne tenerezze, perché‚ avevo abbassato il capo, al momento di ricevere l'effusione. Tenne il volto qualche attimo vicino al mio: se mi occorreva un ultimo incoraggiamento, provvidero, oltre il bisogno, il rilucente umidore delle sue labbra e il lampeggiare delle pupille. Afferrai con gioia, un fiducioso trasporto verso la vita, la mano che mi tese. Ci avviammo alla volta della scuola. Ogni poco, mi gratificava di uno sguardo tenero, protettivo. Dimostrava di avere molto più senno che anni, un tatto, una sensibilità di adulta. Era in pace con se stessa, non provava vergogna per il comportamento della sera avanti. Le indirizzai ondate di gratitudine. Sentivo che un patto tacito, un che di simile a una complicità spirituale, rinsaldava il nostro vincolo, accresceva la fiducia che ponevamo l'uno nell'altro, la reciproca confidenza. Camminavo a fianco della persona che incarnava il mio essere nascosto, l'io segreto.


***


   Gareggiavamo tra di noi in lunghe corse per la spiaggia, nuotavamo di buona lena, volavamo su qualunque ostacolo potessimo scavalcare. Insomma, non perdevamo occasione di stimolarci e dimostrare l'uno all'altro quanti aspetti inediti si celino dietro l'apparenza accreditata dalle abitudini. Diciamo pure che riuscimmo a sorprenderci a vicenda e ciascuno dinanzi a sé.
   Gli altri ragazzi e ragazze ci dettero la misura dei nostri talenti. Avevamo piuttosto trascurato le attività motorie, dopo la scuola media inferiore, e, ora, covavamo il rammarico di esserci sottratti a un futuro di campioni. Giusy m'incantava con le sue gambe di festosa trampoliera, lo scarno modellato dei fianchi, i musicali sculettamenti, il dolce equilibrio delle masse. Quando torceva il busto, esplodeva contro di me tutto il fascino dell'olimpo femminile. Era la forza muscolare risolta in grazia. I suoi gridolini di gioia rimbalzavano dalle arcane prode su cui giuocano le ninfe. Avevo colpito giusto nel concederle un credito infinito. L'opportunità di aggiungere qualche verifica alle molte abituali discendeva dai suggerimenti di suo padre. Gli portavo riconoscenza.
   Il pensiero che potevo ritenermi a buon diritto il suscitatore e il destinatario di quella profusione di avvenenza ed energia mi trascinava in vortici di orgoglio. Avrei voluto che la mia fortuna si palesasse al mondo intero e qualcuno vedesse meglio di me quale contropartita sapessi offrire a una tale largitrice di stupori. Il desiderio sessuale che mi era salito, nei giorni precedenti, ad alte temperature si consumava nel fluire ininterrotto degli attimi felici. Assorbivo il suo fulgore di giovane donna e ne rimanevo ubriacato. Le bastava un gesto, un sorriso, uno sguardo, ciascuno da solo, per riempire sino al colmo le mie aspettative sentimentali.
   Non dubito che Giusy, in virtù del suo stesso amore, trovasse in me una dispensa d'incantamenti, altrettanto generosa. Quella continua offerta di sé‚ dell'uno all'altro suppliva all'intimità ricercata, sino a qualche giorno prima, nella camera da letto. Ci attardavamo sulla spiaggia, al punto di giungere a tavola quando il contenuto dei nostri piatti abbisognava di tornar sul fuoco. Dovevamo reggere, non senza provare la sottile voluttà dei complici, lo sguardo sospettoso e indagatore di sua madre. Quella diffidenza mal fondata era sorgente di una nostra ilarità, espressa, beninteso, in cauti, fugaci ammicchi, ma, al tempo stesso, ci generava un senso di inquietudine, come se, in qualche modo, affiorasse l'intenzione che non avevamo mandato a segno o, piuttosto, fosse colpevole la nostra condotta attuale. L'incertezza ci rendeva guardinghi, timorosi di offrire concreti appigli.

RitornoRitorno

....................................
PAGINE ANTOLOGICHE SPECIFICHE