Il ragno farfallone

  Sotto forma di favola, con tanto di morale conclusiva secondo la migliore tradizione del "logos" esopico, la storia del ragno farfallone offre un affresco lirico ed essenziale dell'animo umano.
  La presunzione di poter volare liberi dalle maglie della propria ragnatela, varcando, con ali fittizie, i confini della propria natura per esplorare "i sospesi regni dell'ignoto", finisce in un misero seppur salutare naufragio.
  Nell'inevitabile scontro illusione/realtà, apparenza/essenza, ignoranza/conoscenza con cui l'individuo - ragno farfallone o sapiente scienziato - deve confrontarsi, la saggezza del vecchio ragno Socrate riecheggia il delfico "Conosci te stesso".

Giuria del premio letterario "Don P. Bacci"
(Giudizio redatto da una docente della Normale di Pisa)
Il ragno farfallone.

  C'era una volta un ragno che divorava, ogni giorno, un gran numero di mosche ed altri insetti alati. Tanti ne uccideva, non per fame, ma per invidia. Non sopportava che, a differenza di lui, sapessero volare.
   Nel tentativo ripetuto d’imitarli, compiva ardite evoluzioni tra le maglie della ragnatela e si lanciava in acrobatici balzi di ramo in ramo, sospeso alle argentee liane che gli uscivano dalla filiera.
   Quale misera scimmiottatura la sua! Poteva scendere a precipizio, sperimentare cadute vertiginose nel raggio consentito dalla lunghezza degli agili fili, abbandonarsi un attimo alla illusione del volo, ma non salire, in alcun modo, oltre gli ancoraggi della sua aerea palestra, e non volteggiare nell'azzurro come le minuscole creature che gli rifornivano la mensa.
   Un bel mattino di giugno, si svegliò, roso dall'invidia più del solito, e decise di recarsi dal vecchio Ragno Artigiano per risolvere il problema che gli amareggiava così tanto l'esistenza.
   "Vuoi gareggiare con gli angeli?" gli domandò costui; e soggiunse: "Entra nel mio laboratorio e sdraiati a pancia in giù sul mio banco di lavoro. Ho l'obbligo di ricordarti un pensiero di mio nonno Socrate, maestro di tutti i Ragni Pensatori. Diceva che ciascuno deve sforzarsi di star bene nella propria natura e non cercare d'intrufolarsi in quella altrui".
   Qualche minuto dopo, fece ritorno con sei petali di margherita e, tratte dalla filiera due gugliate del magico filo d’artefice, li cucì, tre per lato, sul dorso del ragno invidioso.
   "Impara a muovere le ali con ritmo corretto e, mi raccomando, la forza necessaria" disse.
   Il beneficato gli soffiò un frettoloso "grazie" e corse nel prato, dove si diede a saltabellare, svolazzare, dapprima con molta goffaggine e ingloriose zuccate contro i fili d'erba e gli steli dei fiori, poi, come i bimbi che sono riusciti a muovere passetti fiduciosi dalle braccia della mamma a quelle del papà, con sicurezza crescente e, addirittura, con spavalderia.
   Era tempo che esplorasse i sospesi regni dell'ignoto.
   Di quando in quando, un frenetico sbattere d'ali denunciava un'incertezza o poneva rimedio a una perdita di quota, ma il viaggio, nell'insieme, procedeva leggiero e sicuro.
   E venne il momento della gloria. Il ragno invidioso non dubitò di essere fuggito dai chiusi confini del mondo e, per questa ragione, sciolse un canto di vittoria: "È bello guardar di quassù / formiche ranocchi lucertole, / i bimbi che vanno all'asilo, / che giuocano in molti cortili, / in volo balzar fra le nubi, / dove neve grandine e pioggia / sono tenue e lieve vapore". E proseguì con parole tanto gonfie di superbia che l'eco se le mangiò.
   "Che freddo e che desolazione", dovette pensare, a un tratto. "Non vedo un palpito di vita, neppure un moscerino."
   Gli convenne, dunque, scendere. Chiuse le ali e si abbandonò al carezzevole e cedente sostegno di mille aliti d'aria, a bizze e ghiribizzi di venticelli e, come un naufrago del cielo, giunse vicino al suolo. Dispiegò i sei petali di margherita e rimase a mezz'aria. Non gli occorreva che un rapido frullo per immergersi nel folto via vai dei minuscoli alati e fingersi uno di loro.
   "Oh, guarda che strana farfalla!" esclamò una fanciulla, indicando l'insolito volatore. "A me sembra un moscone" obiettò una sua compagna. "Ha le zampe di ragno" fece notare un'altra. "Dev'essere un ragno farfallone" stabilì un bimbo di cinque anni, che aveva l'occhio, quanto vivace, attento.
   Un vecchio scienziato, venuto in periferia ad alimentare la curiosità, udì quei discorsi e, volto lo sguardo nella giusta direzione, fu certo di avere compiuto una scoperta scientifica sensazionale. E cominciò a studiare lo strano animale.
   Il ragno farfallone, stanco di pavoneggiarsi in lungo e in largo per la rapidità e l'eleganza del volo, calò su una grossa pietra, senz’altro proposito che di prendervi ristoro.
   Convinto di avere scoperto la fenice degl’insetti, ma, altresì, che un tale prodigio non si sarebbe più mostrato per quel giorno, l’uomo di scienza credette fosse suo dovere precipitarsi nello studio a scrivere una dotta relazione.
   Il sole batteva forte e, ben presto, rese ardente la pietra.
   Il ragno farfallone uscì di soprassalto da un sonno ristoratore e, nello stordimento del risveglio repentino, scommise con se stesso di trovarsi in graticola dal rosticciere. Invece che alle abili zampe, affidò alle ali la salvezza da una probabile cottura. Prese la rincorsa e tenne per fermo che il miglior decollo mai compiuto nel regno animale fosse, e di gran lunga, il suo, e tale rimanesse per i secoli a venire.
   Ahimè! Precipitò su quella stessa pietra e cadde a rotoloni in una buca profonda.
   I raggi ardenti avevano seccato i sei petali di margherita, che, adesso, pendevano inerti e mostravano le grinze.
   Il ragno si alzò malconcio, ma, infine, avvertito che bisogna star contenti nella propria natura. E, prima che dalle ferite, guarì dell'invidia.