CORPO, ASSENZA, SCRITTURA.

(D. DA PRA, Il bandolo e l’enigma, Grafiche Veronesi Tipografia Editrice, San Lazzaro di Sàvena 2004)

 

Chi torni a scorrere, tenendo in controluce questo nuovo romanzo di Dionisio Da Pra, i Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes, potrà essere indotto a soffermarsi su tre voci: Corpo, Assenza, Scrittura. E si potrebbe dire che in quest’opera il primo elemento della triade tende, attraverso il secondo, a risolversi nel terzo: il corpo oggetto d’amore è come smaterializzato e reso intangibile dalla lontananza e dall’assenza; ed è proprio su quell’assenza, su quel vuoto che si distende e si avvolge la scrittura, l’amorosa pioggia di segni che surroga una mancanza, che tenta di colmare una distanza, di saldare, per quanto in absentia, un rapporto. Sembra che la scrittura, oltre e più che descrivere e narrare (sebbene un intreccio vi sia, e anzi complesso e avvincente), rappresenti e celebri, nella sostanza - appunto con il diagnosticare una sparizione, un vuoto, e con l’evocare, intorno ad essi, una danza vorticosa e infinita di fantasmi, memorie, sospetti, ipotesi -, se stessa, la propria sapiente cesellatura, la propria trama finissima, la propria sovrana, insostenibile leggerezza.

Viene in mente (per pura affinità, e senza nulla togliere all’assoluta originalità dell’autore) La coppa d’oro di Henry James, affine a Il bandolo e l’enigma anche per l’intreccio, fondato, in ambo i casi, su di un rincorrersi e un confondersi di liaisons dangereuses. E, sempre per ciò che riguarda quella scrittura frammista di corporeità e di assenza a cui si accennava poc’anzi, potrebbe valere per Da Pra precisamente quello che Gide scriveva di James: «il peso della carne è assente dal suo mondo», la sua parola sfiora continuamente, ma con dolcezza, come sospesa tra il dire e il non dire, segnata di veli, penombre, parole accennate e taciute, l’intimità delle relazioni, la loro sfera carnale, ma anche la stessa arsione sentimentale e affettiva delle passioni più violente e vive. Ma penso anche alle Affinità elettive di Goethe, altro romanzo – citato, per di più, nel Velluto di Utrecht, forse la prova più riuscita di Da Pra – il cui sistema dei personaggi è tutto attraversato ed innervato da uno scambievole e mutevole intreccio di relazioni; al tocco magistrale con cui Goethe, semplicemente accennando all’esiguità e alle trasparenze di una veste da camera, alle velate nudità femminee che essa lasciava intravedere, allude, sottacendola, all’unione che porta al concepimento di un figlio.

La pagina di Da Pra disegna, tratteggia, dipinge, in un modo che sembra, se così si può dire, paradossalmente conciliare figurazione e astrazione, realtà ed evocazione, concretezza e illusione. Si potrebbe richiamare la pittura di Attilio Lauricella, ispiratore de L’incubo del ritrattista, o quella di Giuliano Trombini, maestro nell’immergere figure femminili, ritratte con sapiente evidenza descrittiva e, insieme, con alata suggestione evocativa in scenari che avvolgono la realtà marcata e precisa di oggetti e situazioni in una sorta di alone sospeso e quasi fatato, denso di presentimento, di attesa, di possibilità dischiuse e suggerite. L’immagine, si legge in un passo dell’Incubo del ritrattista memore di Platone come di Kandinskij, «doveva (…) essere pura idea, smaniosa di concedersi alla percezione sensibile»; «occorreva un alito di colore, un nonnulla segnico, un pallido alcunché sbocciato al confine fra l’essere e il non essere». La scrittura di Da Pra (vicina forse, in ciò, nonostante la sua classica compiutezza, la sua ariosa e sapiente costruzione, a certi aspetti della sensibilità dell’informale) insegue ed abbraccia, si potrebbe dire, proprio questo nonnihil, questo quid, questo lembo cangiante e versicolore di realtà diviso e conteso fra l’essere e il nulla: e proprio in quel «pallido alcunché», in quel quasi-nulla gravido però di sensazioni, di risonanze, di significati, la sua parola si muove, si nutre e respira.

Ne Il bandolo e l’enigma, al motivo dell’illusione sensuale, dell’ampio volo d’immaginazione con cui la protagonista femminile tenta e si illude di colmare il vuoto aperto dalla sparizione del marito – motivo sottilmente simboleggiato, se si vuole, nel romanzo dell’’89, proprio nel Velluto di Utrecht, dal “palpito d’aria e di luce”, dalla cortina di “aliti di colore” e di “teneri ricordi” in cui i tratti di un desiderio presente e vivo si confondono con quelli, più sfumati, di una passione velata dalla reminiscenza –, se ne affianca un altro, cioè quello dell’”enigma” che già il titolo lascia presagire, del fitto mistero, del manzoniano “guazzabuglio” o del gaddiano “pasticciaccio”; un elemento, quest’ultimo, che l’autore sviluppa con una tecnica narrativa serrata, rapida, sapientemente indiziaria, e con sottile e finissima introspezione psicologica. Nella fusione di questi diversi temi e motivi risiede una parte significativa del pregio e del fascino che il libro racchiude.

La coppa d’oro che i personaggi di James lasciano, comprano, perdono, ritrovano, e che simboleggia, forse, lo stesso sovrano artificio dell’arte narrativa, aveva un’impercettibile incrinatura. Proprio quell’esile crepa, quella sottile curva, quel quasi inafferrabile clinamen sono la traccia che il lettore deve seguire per entrare nel mondo affascinante, raffinato ed etereo che la parola di Da Pra dipinge e plasma.

Matteo Veronesi