Chi torni a scorrere,
tenendo in controluce questo nuovo romanzo di Dionisio Da Pra,
i Frammenti di un discorso amoroso di
Roland Barthes, potrà
essere indotto a soffermarsi su tre voci: Corpo, Assenza, Scrittura. E si
potrebbe dire che in quest’opera il primo elemento
della triade tende, attraverso il secondo, a risolversi nel terzo: il corpo
oggetto d’amore è come smaterializzato e reso intangibile
dalla lontananza e dall’assenza; ed è proprio su quell’assenza, su quel vuoto
che si distende e si avvolge la scrittura, l’amorosa pioggia di segni che
surroga una mancanza, che tenta di colmare una distanza, di saldare, per quanto
in absentia,
un rapporto. Sembra che la scrittura, oltre e più che descrivere e narrare
(sebbene un intreccio vi sia, e anzi complesso e avvincente), rappresenti e
celebri, nella sostanza - appunto con il diagnosticare una sparizione, un
vuoto, e con l’evocare, intorno ad essi, una danza
vorticosa e infinita di fantasmi, memorie, sospetti, ipotesi -, se stessa, la
propria sapiente cesellatura, la propria trama finissima, la propria sovrana,
insostenibile leggerezza.
Viene in mente (per pura
affinità, e senza nulla togliere all’assoluta originalità dell’autore) La coppa d’oro di Henry
James, affine a Il bandolo e l’enigma anche per l’intreccio, fondato, in ambo i casi,
su di un rincorrersi e un confondersi di liaisons dangereuses. E, sempre per ciò che riguarda
quella scrittura frammista di corporeità e di assenza
a cui si accennava poc’anzi, potrebbe valere per Da Pra precisamente quello che Gide
scriveva di James: «il peso della carne è assente dal
suo mondo», la sua parola sfiora continuamente, ma con dolcezza, come sospesa
tra il dire e il non dire, segnata di veli, penombre, parole accennate e
taciute, l’intimità delle relazioni, la loro sfera carnale, ma anche la stessa
arsione sentimentale e affettiva delle passioni più violente e vive. Ma penso
anche alle Affinità elettive di Goethe, altro romanzo – citato, per di più, nel Velluto di Utrecht,
forse la prova più riuscita di Da Pra – il cui
sistema dei personaggi è tutto attraversato ed innervato da uno scambievole e
mutevole intreccio di relazioni; al tocco magistrale con cui Goethe, semplicemente accennando all’esiguità e alle
trasparenze di una veste da camera, alle velate nudità femminee che essa
lasciava intravedere, allude, sottacendola, all’unione che porta al
concepimento di un figlio.
La pagina di
Da Pra disegna, tratteggia, dipinge, in un
modo che sembra, se così si può dire, paradossalmente conciliare figurazione e
astrazione, realtà ed evocazione, concretezza e illusione. Si potrebbe
richiamare la pittura di Attilio Lauricella,
ispiratore de L’incubo del ritrattista, o quella di Giuliano Trombini, maestro nell’immergere figure femminili, ritratte
con sapiente evidenza descrittiva e, insieme, con alata suggestione evocativa
in scenari che avvolgono la realtà marcata e precisa di oggetti e situazioni in
una sorta di alone sospeso e quasi fatato, denso di presentimento, di attesa,
di possibilità dischiuse e suggerite. L’immagine, si legge in un passo dell’Incubo
del ritrattista memore di Platone come di Kandinskij,
«doveva (…) essere pura idea, smaniosa di concedersi alla percezione
sensibile»; «occorreva un alito di colore, un nonnulla segnico,
un pallido alcunché sbocciato al confine fra l’essere
e il non essere». La scrittura di Da Pra (vicina forse, in ciò, nonostante la sua classica
compiutezza, la sua ariosa e sapiente costruzione, a certi aspetti della
sensibilità dell’informale) insegue ed abbraccia, si potrebbe dire, proprio
questo nonnihil, questo quid, questo
lembo cangiante e versicolore di realtà diviso e
conteso fra l’essere e il nulla: e proprio in quel «pallido alcunché», in quel quasi-nulla gravido però di sensazioni, di risonanze, di
significati, la sua parola si muove, si nutre e respira.
Ne Il bandolo e l’enigma, al motivo dell’illusione sensuale,
dell’ampio volo d’immaginazione con cui la protagonista femminile tenta e si
illude di colmare il vuoto aperto dalla sparizione del marito – motivo
sottilmente simboleggiato, se si vuole, nel romanzo dell’’89, proprio nel Velluto di Utrecht, dal “palpito
d’aria e di luce”, dalla cortina di “aliti di colore” e di “teneri ricordi” in
cui i tratti di un desiderio presente e vivo si confondono con quelli, più
sfumati, di una passione velata dalla reminiscenza –, se ne affianca un altro,
cioè quello dell’”enigma” che già il titolo lascia presagire, del fitto
mistero, del manzoniano “guazzabuglio” o del gaddiano
“pasticciaccio”; un elemento, quest’ultimo, che
l’autore sviluppa con una tecnica narrativa serrata, rapida, sapientemente
indiziaria, e con sottile e finissima introspezione psicologica. Nella fusione
di questi diversi temi e motivi risiede una parte
significativa del pregio e del fascino che il libro racchiude.
La coppa d’oro che i personaggi di James lasciano, comprano, perdono, ritrovano, e che
simboleggia, forse, lo stesso sovrano artificio dell’arte narrativa, aveva un’impercettibile incrinatura. Proprio quell’esile
crepa, quella sottile curva, quel quasi inafferrabile clinamen
sono la traccia che il lettore deve seguire per entrare nel mondo affascinante,
raffinato ed etereo che la parola di Da Pra dipinge e plasma.