Le
maschere.
Giuliano
Trombini da Tresigallo (FE) colleziona da circa vent'anni "personali" e
"collettive", a cui partecipa con un diapason inconfondibile. Ha conseguito
la palma in numerosi concorsi di pittura. I riconoscimenti ottenuti costituiscono
un elenco ragguardevole. La sua notorietà non abbisogna di puntelli.
Si alimenta e accresce sul campo. Ogni quadro esposto apre una breccia
anche in sensibilità recalcitranti; ai numerosi estimatori rinnova
il piacere dell'incontro. La sua "poetica" più recente sembra aver
preso in appalto il carnevale. È più esatto dire che ha eletto
a motivo conduttore la speciale simbiosi che lega le maschere a Venezia.
Questo evento suscita non poca curiosità.
Viene
da chiedersi per quale ragione un giovane pittore, dotato d'inventiva e
munito di un bagaglio tecnico di prim'ordine, sospenda le feconde e, per
molti aspetti, esemplari peregrinazioni attraverso i domini tematici propri
della pittura e si trattenga a lungo, quasi posseduto dall'intenzione di
mettervi su casa, in un rarefatto arco d'orizzonte in cui l'abitudine è
tratta al patibolo, l'anagrafe sconvolta e l'Io si rispecchia nell'alterità,
s'identifica nel travestimento.
Ci
si accorge, appena lo sguardo si acuisca e perfori le apparenze, che Trombini
non ha impiantato l'osservatorio d'artista dentro l'angusta circonferenza
di un'isola, bensì nel cuore stesso dell'universo. In altre parole,
nei recessi della psiche.
Certi
dipinti anteriori recano sulla scena le vitali urgenze dell'uomo massificato,
il suo bisogno di rivendicare l'unicità della sostanza umana che
lo connota e lo rende persona distinta, irripetibile. Nei lineamenti e
nei gesti che recitano in primo piano e appartengono a una figura femminile
- come prescrivono le ragioni dell'arte e l'universale statuto dell'emotività
-, una moltitudine anonima, compressa sullo sfondo, condensa la propria
aspirazione a sciogliersi dal mucchio informe, a lacerare anch'essa il
sipario dell'altrui indifferenza. In altre opere, il profilo di una giovane
donna rifiuta la mistificante categoricità dell'istantanea e si
scompone nelle espressioni che incarnano le ambivalenze e le antitesi del
nostro intimo, oppure aggruma nei tratti i segni di una esperienza, di
una storia personale che volti di età trascorse, tuttavia inconcluse,
- di fanciulla, di adolescente -, ridestati con garbo, in punta di pennello
- quasi affiorassero dalle profondità della mente e volessero offrire
immagine alla nervatura sofferta, al tessuto composito, stratificato, degli
stati d'animo attuali -, scandiscono nei passaggi essenziali della vita.
Altri lavori evocano le suggestioni di Venezia. Trombini ha l'aria di volerci
convincere che i secolari stupori delle folle hanno lasciato un alito di
umanità sugli ornati, sulle traforate simmetrie dei palazzi, delle
chiese, un velo sensibile che in qualche modo reagisce e palpita a ogni
presenza d'uomo.
Ora,
l'incontro delle due tematiche - l'esplorazione del profondo e la ricerca
di uno specchio secolare della condizione umana nei marmi di una città
che sembra ritagliata dai nostri sogni -, si direbbe il necessario approdo
di un processo ideativo, una sorta di congiunzione astrale dell'immaginario.
Per
Trombini, Venezia è, da sempre, l'araba fenice che si estenua nei
riflessi della sua laguna e di continuo risorge nel trionfo delle morbide
luci, della geniale architettura. Gli si propone, d'istinto, come grande
tappeto volante della fantasia, macchina del tempo al servizio delle nostre
fughe dalla realtà, palcoscenico ideale per la commedia della vita.
Trombini vi conduce i suoi personaggi femminili. E vi compie una fondamentale
scoperta. Il carnevale assume carattere di evento che trascende il rito
pagano prequaresimale, si fa occasione di mettere a nudo l'Io nascosto,
la parte recondita, eppure costitutiva del nostro essere. Il volto artefatto,
ottenuto sotto la guida inavvertita del subconscio, sia una maschera sovrapposta
o l'effetto di una sommaria truccatura, non è più lo strumento
di una personificazione mimetica, del bisogno di essere, una volta tanto,
altri da sé, ma il sembiante che meglio ci identifica, conformato
sul nostro profilo interiore e non elaborato dal caso o dalle alchimie
genetiche. La vera maschera è proprio il nostro volto naturale.
E la vita può intendersi come un interminabile ballo in maschera.
Il carnevale, sembra voler dire Trombini, è la reincarnazione a
portata di mano, ci consente la ripulsa dell'Io mortificato dalle ore abituali.
Non a caso, scorgiamo nelle sue maschere le stimmate di un comune retaggio,
di una generale alienazione, le impronte della stanchezza, dell'inquietudine,
gli ardori dell'anima e della carne, le ferite e i lasciti del quotidiano,
insomma, i mille volti della commedia umana, di cui egli ci aveva spalancato
il catalogo mediante il giuoco delle scomposizioni, degli accostamenti
fisionomici. Può succedere, talvolta, ribadisce Trombini, che basti
un lieve ritocco delle sopracciglia a far scoprire unasomiglianza
speculare con un Pierrot, tenuto in braccio o seduto di fronte, al tavolo
di un bar. Volto naturale e maschera rivelatrice convivono nei lineamenti.
Basta saper vedere. Così il carnevale si manifesta come il regno
del paradosso: l'apparente anonimia dietro alla quale ci trinceriamo ci
definisce assai meglio della nostra stessa identità anagrafica.
La
Venezia di Trombini, dicevamo, è rivestita di pelle sensibile, non
di algide superfici. I suoi squarci incantati sanno stare in rapporto dialogico
o dialettico con le figure in maschera che la percorrono, seguendo i tracciati
di una mappa interiore. Venezia ci appartiene: è un nostro comune
rifugio.
Trombini
illustra la sua grande intuizione attraverso un disegno prezioso, un sapiente
uso dei colori, abile nel trarre dalla tavolozza luci, contrasti, mezzi
toni, nel creare atmosfere sfumate, stupefatte. Dimostra che è possibile
trasferire sulla tela un concetto, una riflessione, senza dover esulare
nell'astrattismo. Sotto i cieli dell'arte esistono tuttora orizzonti figurativi
inesplorati.
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