Fernando Regazzo.
Classici riverberi e moderni bagliori.


 

Se mi si chiedesse d'indicare l'opera scultorea che, a mio giudizio, fra le molte, circa quaranta, esposte da Fernando Regazzo alla Maison Gerbollier di La Salle (AO), dal 27 luglio al 10 agosto 1991, varie per esito e ispirazione, sebbene tutte contrassegnate da una cifra stilistica inconfondibile, possa, meglio di altre, introdurci alla conoscenza dell'autore, costituire una sintesi rappresentativa della sua idealità artistica e del suo repertorio strumentale, non esiterei a condurre l'attenzione, sedotto dall'insolita arditezza del modellato, su un gesso (di cm 84 X 35 X 27), Maternità. Vi ho intravisto, in breve, una rara congiunzione fra virtuosismo tecnico ed estro creativo. Il gesto del figlio che si allunga e divincola nel tentativo inesausto di sgusciare dalle braccia materne stabilisce con la positura della genitrice una contrapposizione drammatica - pregna, cioè, di eloquenza mimica, vibrante di un movimento appena sospeso -, risolta sul piano formale in un perfetto equilibrio delle masse e costruita, per così dire, su una vaga sbozzatura spiraliforme che si genera dal basso, ma si rattiene, allenta il giro, lo spezza al primo ascendere intorno all'asse verticale, devia in un tenue accenno di torsione per una linea obliqua e, poco sopra, si annoda e scioglie in un ben tramato, icastico conflitto tra le gambe indocili del bimbo e la presa ingabbiatrice della donna; si divide in una slargata forcella, pendente - per chi sia di prospetto - a sinistra, dove, nel lato assimilabile al ramo basso, si plasma e protende il ribelle, mentre, a destra, il busto femminile un poco si flette a ristabilire l'equilibrio. Grazie a certe morbidezze del tocco e agli effetti di luce che la vernice ricoprente favorisce, nerbo espressivo e rigore formale trovano la misura di una compostezza classica, in cui ogni tensione si acquieta senza mai suggerire un pur minimo adombramento di staticità. Si tratta di un'opera esemplare che amo e addito fuori di ogni intenzione di stabilire scale di valore. 

Altre sculture di Regazzo si propongono per la sapienza stilistica che le anima e il risultato estetico raggiunto, qualunque sia la materia (bronzo, acciaio, rame, gesso, terracotta, argento) di cui ha fatto uso. Si vorrebbe passarle in rassegna ad una ad una, prenderle in mano quando sia possibile, rigirarle, percorrerle con le dita alla ricerca di ogni residuo di emozione, di fervore, di compiacimento, ma anche di sofferta ostinazione, che vi si sia acquattato durante l'itinerario creativo. 

È inevitabile sostare dinanzi al bronzo (cm. 137 x 46 x 58, anno 1985) che ha ricevuto il titolo di Il volo. Un corpo di giovane donna si distende in una sorta di grand jeté, ma è ribaltato su un piano orizzontale e sostenuto da un semplice tubo che, senza brutalità, in ossequio, discreto quanto necessario, alle leggi fisiche, gli s'infigge nell'ombelico, drizzandosi per alcuni decimetri dal basamento. L'aerea movenza - uno slancio icariano della femminilità -, il capo infossato fra le braccia spinte innanzi e non congiunte per una ritrosia o pudore delle mani, i piedi stesi in linea con le gambe, l'apertura lieve dei polpacci, disposti come in disegno di pinna caudale, affusolano e arcuano il profilo in delicate modulazioni anatomiche.

Si è disposti a scommettere che Regazzo vive in perenne stato di grazia, mentre si trascorre con l'occhio dall'una all'altra delle teste di donna esposte - e su ciascuna poi ci si sofferma -, tutte magiche e luminose nel volto come nell'acconciatura, intrise delle sue stesse emozioni, dei suoi stupori. L'esperto può notarvi piccole e grandi variazioni del registro stilistico e la presenza di accorgimenti tecnici che sanno conferire una illusoria corposità a particolari appena accennati o, addirittura, assenti (una palpebra, uno sguardo...). In certe figure intere, vi palpiti l'estasi di una ballerina che ha scoperto l'ardire e l'eleganza di un nuovo passo o la pudica inquietudine di un'adolescente, stupisce l'altezza espressiva messa a fronte con la sobrietà del linguaggio scultoreo. L'attitudine dei personaggi non sembra nient'altro che una effusione dei loro pensieri e sentimenti. 

La perizia e versatilità di Regazzo si illustrano anche fuori della scultura a tutto tondo; ad esempio, nel bassorilievo che affronta e domina, guidato dal proposito di sposare l'efficacia con l'evento estetico. Gli occorre, a tale scopo, respingere la tarpatura formale, porsi con libero arbitrio di fronte alle troppo rigide convenzioni. Uno sgarbo - qual è il forte aggetto di uno o più elementi compositivi -, ai canoni di quella tecnica che si affida per statuto a tenui spessori può convenire all'economia dell'insieme, aggiungere forza alla rappresentazione. Viene in mente il zappatore leopardiano e l'opportunità di quell'articolo che la grammatica, nell'uso specifico, condanna. Così, l'impeto di un cavallo che avanza al galoppo e sporge testa e zampe dalla superficie istoriata diventa l'episodio necessario di una scena corale.

Dall'officina artistica di Regazzo escono opere che testimoniano di un costante rinnovamento e di una assidua ricerca di mezzi espressivi. Un giuoco di sestanti, ridotti ad arcano frammento, e di sedimentati reperti cartografici, più vicino nella forma realizzativa al graffito e al bassorilievo che non alla scultura piena, compone una specie di geroglifico indecifrabile del tempo. Ho accennato a una tavoletta bronzea, dall'irresoluto profilo d'arpa, vibrante di sottili rimandi letterari. Accanto, un rotondo scudo di terracotta frantuma con il suo scabro chiaroscuro qualsiasi perspicuità di colore pittorico. Potrebbe imbracciarlo un moderno Perseo. Siamo, invero, di fronte all'indefinibile, a una superficie magmatica che ingoia incerte reliquie consumistiche o relitti dell'universo. Regazzo non è mai banale. Un tondino (o vergella) di acciaio inossidabile, sciolto da chi sa quale matassa chilometrica e atteggiato nello spazio in parabole, eclittiche e spirali, guernito di foglie, anch'esse metalliche, disposte secondo una improbabile fillotassi, non concluso in sé, ma aperto nello spazio fin dove arrivano i riflessi di luce e le mutevoli ombre che promanano dalla sua magica orditura, può divenire l'effigie emblematica dell'artista, pronta ad essere portata via, impressa sulla retina.

Il congedo avviene, è ovvio, sotto il segno di un arrivederci. Regazzo non si dimentica. Si capisce perché, all'estero, dove le antenne sono più ritte che da noi, il suo nome e la sua immagine circolano da parecchio. Gran copia di suoi multipli, impreziositi da un sempre più raffinato mestiere e da molti estri inventivi, interessano il mercato statunitense e canadese. Toronto, New York, Los Angeles, Filadelfia, Long Beach, Dallas lo hanno voluto ospite d'onore in mostre ed expo. La sua produzione esula, giova ripetere, dai limiti dell'eccellenza esecutiva e si costituisce per certi versi in paradigma di ciò che può e dev'essere, oggi, la scultura.

Dionisio Da Pra (Agosto 1991)

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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