Il fascino di una tavolozza stravagante.

Le magiche cromie di Etto.
[Articolo pubblicato sul n° 49 di "Contemporart"]

 

Dionisio Da Pra

 

Molti conoscono il pittore valdostano Ernesto Margueret con il solo nome d’arte, nonché appellativo familiare, ovvero come “Etto”, e associano le due sillabe ad una serie di ritratti, subito riconoscibili in virtù di una particolarità che li rende unici e li accomuna. Grazie all’apparente neutralità dell’artista, invero molto abile nel dissimulare la sua partecipazione emotiva, compongono una società virtuale, priva di gerarchie ed esente da ogni accenno di conflitto o inimicizia: La tribù dei Visilunghi. A separarli provvede la nostra memoria, archivio di affetti, passioni, entusiasmi, orrori, giudizi spesso inappellabili

Si tratta - inutile precisare -, di volti noti, presi dalle pagine della storia o della cronaca. Etto ne estende l’asse verticale, quanto basta a far scaturire da una peculiarità fisionomica, da un cipiglio, una piega bonaria, dallo sguardo, dall’atteggiarsi di palpebre e labbra un eloquente indizio, non solo dei tratti interiori, ma perfino del ruolo sociale, della professione. Lo studio psicologico dei personaggi effigiati costituisce, dunque, la ragione fondante dello specifico esercizio pittorico. L’esito figurativo, comunque appaia, non va inteso quale conseguenza di un’intenzione caricaturale. La tecnica adottata presenta risvolti espressivi che, isolati dal contesto, possono ingenerare interpretazioni forvianti. Ci si trova davanti a ritratti che possono valere un compendio biografico o segnalarsi quale possibile emblema o memoria iconica di un periodo storico.

Di recente, Etto è salito alla ribalta in vesti nuove per stupirci, sul versante non più del segno, ma del colore. Ancora in anni lontani aveva dimostrato di saper riprodurre le forme della realtà. L’impianto disegnativo delle opere che, ora, ci presenta conserva, salvo le eccezioni indicate più avanti, la stessa matrice realistica. In esse, tuttavia, l’artista si rivela piuttosto restio a raffigurare aspetti del mondo che sintonizzino con la nostra diretta esperienza, tutto volto com’è a proporcene alcuni in una versione concertata dalla memoria e dalla nostalgia.

Giova ricordare la teoria dei colori, che vede in ciascuno non una semplice modalità della luce, ma una virtualità emotiva, la capacità d’indurre stati d’animo, d’incidere sull’umore, di suscitare gradimento oppure repulsione o, al contrario, di rendersi veicolo espressivo di tali condizioni interiori. La memoria dis-oggettiva la realtà passata, la ricompone dopo averla sottoposta a continui aggiustamenti operanti nell’inconscio, tesi a rimodellarla con processo lento, inavvertito, ad appiattirla sul ricordo di episodi e situazioni che più hanno inciso sul nostro animo. La gamma tonale delle immagini evocatrici si accorda, in definitiva, con il diapason emotivo. L’artista che le traspone riproduce, il più delle volte, i colori effettivi della realtà rivissuta, ma tenderà a virarli sui toni cupi o solari che tingono di tristezza o gioia il suo chinarsi verso i giorni lontani.

Pensiamo ai daltonici. Essi percepiscono la maggior parte dei colori quali sfumature di grigio. Nel corso degli anni, imparano ad associarli alle specifiche variazioni dell’intensità luminosa. Questa coscienza del colore, frutto d’esperienza, e qualche pratico accorgimento come, ad esempio, l’esatta disposizione degli oli sulla tavola, aiutano il daltonico a dipingere la realtà con adeguata rispondenza cromatica. Non si può, tuttavia, escludere che le sue immersioni nel passato si limitino a ricreare la sola atmosfera emotivo-tonale e non i colori propri dell’ambiente rivisitato dal ricordo, in quanto non riconosciuti per via sensoriale, e che le ombre o le radiosità, generate dalle vibrazioni del cuore, si esprimano, nell’immediatezza del gesto pittorico, ovvero in assenza di troppe mediazioni intellettuali, attraverso una tavolozza attenta alla sola resa del tono e della luce. Impiegati, pertanto, secondo il semplice valore chiaroscurale, i colori appaiono gratuiti e stravaganti all’occhio di chi li percepisce e li vaglia in base ai parametri normali. Può succedere, tuttavia, che l’incongruo cromatismo sortisca effetti di grande piacevolezza. È il nostro caso.

Ernesto Margueret distingue soltanto il giallo, il blu e il rosso puro. La sua biografia c’informa che le vicissitudini della vita lo trattennero a Parigi dal 1947 al 1972, dal sedicesimo al quarantunesimo anno di età, e che, fino a quel lungo periodo di allontanamento dalla sua amata Valle d’Aosta, durante la fanciullezza e la prima adolescenza, condivise il destino di non pochi coetanei nati nelle zone in cui la pastorizia costituiva la principale fonte di sussistenza. Per alcune ore del giorno, le chiostre alpestri e le mucche da custodire diventavano lo scenario e i personaggi di un regno felice. Gli incessanti stimoli artistici e culturali e i molti appagamenti di cui beneficiò durante la venticinquennale permanenza nella Ville lumière non riuscirono a lenire il senso di sottrazione che la nostalgia produce e la distanza temporale, in alcuni spiriti, aggrava. Nella sua immaginazione, il sole non smetteva d’indorare i monti e d’inondare i pascoli della valle lontana.

Da molti anni Etto è rientrato, eppure, il suo sguardo d’artista continua a sovrapporre al luogo in cui si svolge, fra luci e ombre, la sua fattiva quotidianità il fiabesco, incorruttibile splendore della terra sognata. Le fulgide tonalità delle immagini mentali, nel divenire pittura, si traducono, per il descritto automatismo, in colori fascinosi, eppure “trasgressivi”, ribelli ai precetti e alle convenzioni. Quali i soggetti? Le montagne, ovvio, e le mucche, spesso congiunte le une e le altre nello stesso dipinto, quasi unificate nella gamma cromatica. Le pendici rosse, gialle, viola e i manti spesso non dissimili nelle tinte, talvolta verdi o disseminati di chiazze, quasi su iniziativa di un bizzarro estetista che intenda apparecchiarli per un concorso di bellezza, finiscono con l’apparire naturali e trasmettere un senso di piena serenità. D’altronde, il nostro conosce la dialettica del colore, al pari di un abile astrattista. Le sue licenze cromatiche si conciliano, anzi, non sembri un paradosso, si connaturano con la puntualità raffigurativa delle forme. L’altrimenti attento realismo delle stesse, va chiarito, si distrae di fronte al paesaggio. All’artista non importa che l’aspetto fisico degli ambienti alpestri si rispecchi con fedeltà nei suoi dipinti. Gli interessa comunicare le suggestioni che possono derivarne. Di conseguenza, rimodella conche, declivi, profili montuosi, imprimendo all’insieme degli elementi figurativi un vigore evocativo che astrae da qualsivoglia corrispondenza a luoghi definiti, ma in qualche modo quelli ed altri richiama.

L’espressione e la postura degli animali ritratti assegna un ruolo irrinunciabile alla individualità di ciascuno. Si riceve l’impressione che le mucche, a cui si aggiungono da un po’ le caprette, i porcellini, l’asina col suo asinello incarnino i nostri migliori sentimenti, le nostre tenerezze, anche le curiosità. Se le prime incrociano le corna, potete ravvisare nei loro occhi la risolutezza grintosa tipica del lottatore spronato da un incrollabile amor proprio a conseguire i massimi trofei. Il sentimento della dignità personale alberga, vi è ancora qualcuno che dubiti ?, anche in un cuore vaccino.

Congiunta all’accennata caratterizzazione, di per sé ammaliante, l’originale cromia esercita un’attrattiva tale da indurre nell’osservatore la convinzione che il pittore rappresenti il dover essere delle cose o addirittura l’aspetto recondito della realtà, coglibile grazie ad una acutezza visiva quanto rara, miracolosa, generata da una anomalia, ma sostenuta da una sensibilità, emotiva ed estetica, capace di trasformarsi, come nei poeti, in coscienza di tutti e di ciascuno.

Lasciamo, dunque, che le mucche di Ernesto Margueret , rallegrate dal colore e rese interpreti accattivanti, di qualità non soltanto umane, pascolino - e ristorino i nostri sguardi - nelle sterminate praterie dell’arte.