la sapiente eloquenza del colore.
Diciamo subito che Efrain Vidal,
nato a Lima in Perù il 17 luglio del 1965, nonostante la giovane età, è noto e stimato
nel mondo latino-americano dove quotidiani e periodici tengono una puntuale
documentazione della sua attività espositiva e non esitano ad esprimere, in
merito alla sua pittura, giudizi di valore dal tono entusiastico. Non mancano,
neppure negli Stati Uniti, galleristi interessati ad organizzargli mostre, critici d’arte solleciti nel segnalarlo e
collezionisti disposti ad arricchire con qualche suo dipinto la quadreria
personale. In alcune capitali europee e città italiane, a cominciare dagli
ambienti aperti alle proposte artistiche innovative (da qualche tempo anche a
Shanghai), gli si riserva un sempre più convinto apprezzamento.
Le tematiche
che Efrain Vidal affronta, salvo un occasionale più libero arbitrio della sua
immaginazione, attengono alle cose di cui facciamo uso, alle nostre dimore, all’ambiente,
al paesaggio, alla realtà fisica e spirituale di uomini e donne. Non v’è,
dunque, novità, nelle sue opere, riguardo ai soggetti trattati. Originale, invece,
per molti aspetti, risulta il modo di metterli in
scena sulla tela. Se li accorpiamo per categorie (gli oggetti, i paesaggi, le
figure), balza all’evidenza come ciascuna di esse gli
suggerisca il ricorso a specifiche modalità del suo linguaggio pittorico, duttile
quanto basta, ferma la collaudata “sintassi” di fondo, ad assecondare ogni occorrenza
espressiva. Gli strumenti della pittura servono ad Efrain Vidal non per
restituirci la realtà nelle forme in cui s’imprime di solito sulla retina, ma
per mettere in risalto il valore aggiunto che essa acquisisce nel proiettarsi
dentro il laboratorio reattivo della sua sensibilità d’artista. In pratica,
egli c’invita a scoprire, attraverso i suoi modelli interpretativi, sfaccettature
del mondo reale che lo stesso non possiede, se non nella misura in cui gliele può
conferire l’acuità visiva - tanto più elevata e perscrutante quanto più
l’esperienza è fertile di rimpianti, nostalgie, ricordi ed anche avvertenze - non
degli occhi, ma del cuore, dell’animo, della mente.
L’artista, dunque, mentre prova
gli accordi sulla tastiera emotiva, consegna al supporto pittorico immagini
della realtà, dissezionate e ricomposte con un particolare procedimento
combinatorio, alla cui regia la memoria, specola e vetrino della visione
attuale, presiede, sorretta da improvvise associazioni, suggerite
dall’esperienza, dalla cultura. Gli stati d’animo, i flussi umorali influiscono
sulla scelta delle tonalità. Si concretano, in tal modo, rappresentazioni non
cristallizzate nel disegno complessivo e nella trama cromatica, ma rese
partecipi di un movimento che, pur creandosi all’interno dell’osservatore - ci
si riferisce ad una dislocazione spazio-temporale dovuta ai processi mnemonici,
alle suggestioni indotte dal manufatto artistico -, viene
percepito come appartenente alla sottesa tessitura delle opere stesse.
Il risultato pittorico si risolve,
non di rado, in immagini che, di primo acchito, appaiono scombinate, costituite da strisce, bande, fantasiose geometrie, secondo
la tecnica di uno stravagante collage mentale, sciolto dai vincoli di un progetto
figurativo ed attento più al profilo dei singoli frammenti che al concerto dell’insieme.
Non appena si accomoda nella visione, l’occhio assiste al lento e progressivo
emergere delle forme significative, del loro presentarsi
con la forza icastica di fotogrammi, ritagliati dalla normale sequenza “narrativa”
e giustapposti per ottenere alcunché di somigliante ad una sintesi iconografica
della realtà. Un tale artificio può servire a mostrarci, addirittura, come
l’anima delle cose rispecchi l’anima delle persone che su di esse
lasciano i segni dell’uso quotidiano, anche della propria disattenzione, della fretta
maldestra, della grossolanità. Parliamo di piccoli mobili - emblematico
il comodino della nonna, per decenni rimasto in servizio nel lontano Perù e,
chi sa, non ancora giubilato -, divenuti i protagonisti assoluti di qualche dipinto.
Quando l’estremo traguardo dell’obsolescenza si avvicina o è già scoccata l’ora
del pensionamento funzionale, li rimiriamo con lo sguardo affettuoso
dell’artista, percepiamo la sua nostalgia, smaniosa di ricondurre il tempo
indietro, mentre, per l’effetto catalizzante dell’oggetto ripensato, addensa e sovrappone
ricordi di atmosfere, di persone, ridesta palpiti antichi.
Una simile tecnica e un simile fervore rivestono un ruolo preponderante in
molte evocazioni di paesaggi e di figure umane. Riguardo ai primi, l’apporto nostalgico-emotivo
non differisce, se non nell’intensità, da quello che incide nella rappresentazione
degli oggetti d’uso. La natura, allora, anche nelle sue isolate presenze, quali
due fiori che occupano l’intero spazio della tela, prende sembianze antropomorfe.
Talvolta, si trasforma in scenario fiabesco o diventa un qualcos’altro da sé,
una cornucopia di metafore, di sensi nascosti. Riguardo alle seconde, il linguaggio
pittorico si piega all’esigenza di tradurre in immagine i tratti interiori del
personaggio effigiato, i sogni che allietano le sue aspettative
o il magico influsso della sua prorompente singolarità. Il dinamismo della
scena e l’atmosfera surreale comportano l’uso di un più lieve fraseggio
pittorico, un più soffuso impiego del colore. Alcuni ritratti non si discostano
granché dalla riproduzione delle caratteristiche fisionomiche, non lasciate, tuttavia,
indenni da un benevolo intento caricaturale che riesce a renderle spie evidenti
di un’indole per qualche verso curiosa. Al pittore interessano gli individui
meno scialbi e meno accomunabili.
Sia chiaro: gli esempi descritti non
costituiscono nient’altro che un pallido tentativo di scoprire un minimo
denominatore all’interno di un repertorio artistico, ricco di partiture e di variazioni
sul tema, non precluso ad opere meno elaborate, vicine alla resa fotografica o,
al contrario, riconducibili solo alla loro stessa autonoma concretezza. Si
tratta di figurazioni germinate motu proprio nella mente del pittore e trasposte
sulla tela, prima che si dissipino, per fissarvi con delicati tocchi di pennello
la vaporosa sostanza cromatica di cui sembrano composte.
Talvolta, una voluta o casuale ambiguità
espressiva rende perplessi riguardo alla possibile
chiave di lettura. Da una finestra spalancata, dipinta in primo piano, lo
sguardo si adagia su una piazza e scruta la via che sul lato opposto si apre e
s’inoltra. Una vecchietta che si regge col bastone interpreta da sola la
presenza dell’uomo. “Museo” s’intitola il dipinto. Sorge, all’istante, una
domanda: «Dove mi trovo? All’interno di un museo o in una stanza qualunque di
paese o di città?». Nel primo caso, non c’è quasi scampo per chi voglia sfuggire a una interpretazione di segno negativo: fuori
regna la vita mortificata, l’inattualità, si respira un clima da museo
ammuffito; c’è più vita qui dentro, nel museo vero e proprio, dove abitano tanti
spiriti quante sono le cose che vi sono custodite, disposti tutti a sonare una
speciale arpa emotiva per ciascuno dei visitatori; qui si dialoga senza proferire
sillaba, ci s’informa, ci si educa, ci si rasserena. Nel secondo caso, le posizioni
s’invertono. Il concetto di museo quale struttura
istituzionale si tinge di una venatura ironica. Il quadro non va letto, allora,
come una denuncia di inadeguatezza del luogo deputato
al compito di scuotere dall’apatia intellettuale, di risvegliare i rami secchi della
mente con la trasfusione di una linfa racchiusa nelle opere d’arte e nelle reliquie
del passato? Conviene, dunque, star fuori, percorrere piazze e vie che si
costituiscono in museo autentico per chi sappia vedere? Oppure, il dipinto stigmatizza l’indifferenza della gente che diserta le gloriose
sale, allineate di qua dalla finestra?
Non chiediamo all’autore quale sia la corretta interpretazione. Risponderebbe: «Decidete
voi». In effetti, l’autentica opera d’arte sollecita una fruizione
interattiva, un rapporto empatico; si carica, ogni volta, di un sovrappiù che
appartiene alla sensibilità dell’osservatore e presenta, quindi, facce
cangianti e imprevedibili. Occorre, del resto, abbandonare l’idea che l’artista
domini e governi il farsi dell’opera, dal vagito iniziale al pieno compimento.
Il prodotto della sua creatività può celargli alcuni o molti dei significati
che si manifestano nel corso dell’esercizio interpretativo altrui.
Gli addetti ai lavori
ravviseranno nell’opera di Efrain Vidal i lasciti di poderosi
movimenti e di grandi figure che illustrano la storia dell’arte. Non si fatica
ad attribuirgli un’ispirazione espressionistica e a scoprire quale feconda lezione
dell’astrattismo rinvigorisce la sua vena cromatica. Qualcuno potrebbe giungere
a supporre che, dietro un paravento, sistemato nello studio di
Efrain, si accucci il redivivo Jacques Villon, intento a magnificargli
la stagione cubista e un olio che ebbe la ventura, nel 1912, di consegnare ai posteri,
ossia l’Uomo che legge il suo giornale”.
È possibile una tale presenza?
Poiché
l’arte si nutre d’arte, ogni artista è debitore di qualcuno. Nella riscossione
dei crediti subentra il pubblico. Gli si deve restituire con gli interessi. Ciò
che si aggiunge al capitale ricevuto indica la misura della propria
originalità. Anche Efrain Vidal ha contratto debito.
Lo salda con mano generosa. A sentir lui, soltanto con la profusione dei
colori. Aggiunge che la tavolozza a cui ricorre si fa veicolo della sua interiorità
e di conseguenza gli appartiene e lo distingue. «I colori alimentano la mia anima
giorno dopo giorno», afferma, «ed è grazie a loro che trovo
la pace e la gioia di cui ho bisogno». I suoi colori: talora forti, non mai
urlanti, talaltra boffici, sognanti, quasi eterei; colori del lessico
familiare, colori semiotici e filosofici, colori in rima, colori che narrano,
pensano, colori che palpitano, sorridono; colori senza tempo; gli insoliti soliti
colori: i colori di Efrain.
Egli racconta volentieri che più
di un esperto percepiva nei suoi dipinti degli esordi la marcata influenza di
un artista peruviano, Szyszlo, consacrato da critici, scrittori, poeti di fama
internazionale e divenuto ospite fisso di grandi musei e pinacoteche. Ebbene, dichiara che non ne conosceva l’opera. Rivela, però,
di avere più tardi appreso che una insegnante di
pittura, sua guida alla facoltà d’arte della Pontificia Università Cattolica
del Perù dove egli seguì dal 1987 e concluse nel 1993 il corso di laurea, era
affascinata dalla produzione di quel maestro e presume che la stessa, affine nelle
idealità artistiche al suo prediletto e incline ad imitarne lo stile, lo proponesse
a modello senza piena consapevolezza.