Irene Dottori

Una pluralità di stili e di tecniche irreggimentati da un sicuro istinto pittorico.

Allo scadere di ogni decade, la Saletta d'Arte di via Xavier de Maistre [Aosta] rimette l'intonaco a nudo, il tempo di agghindarlo per un nuovo appuntamento. L'ospite di turno è, dal 21 al 30 aprile [1989], la pittrice Irene Dottori Cardellino.

Varcate la soglia e v'imbattete in una pittura gremita di figurazioni, polifonica, eclettica per molti aspetti e, al tempo stesso, lineare, percorsa da uno stesso filo conduttore, ispirata da un solo, inconfondibile diapason. Non vi occorre la presenza fisica dell'artista per capire come l'intonazione dominante esprima l'estro e il sentimento di una donna. L'occhio è guida più che sufficiente. Intuite del pari che dietro il pennello si agita uno spirito cosmopolita, teso alla perenne ricerca di ancoraggi, di risposte alla propria inquietudine. S'interroga di continuo, esplora e scandaglia dentro e fuori di sé, nel cuore d'uno stesso, universale labirinto dove la mappa segreta dei bisogni profondi, delle ragioni ultime si cela. La Dottori è consapevole di appartenere a una universalità di simili e ritrova la sua essenza più intima, la sostanza che l'individua, seppure rimodellata di continuo, nei paesaggi umani - tutti al femminile - che la sua itinerante sensibilità di donna visita sotto ogni possibile cielo, senza uscire, tuttavia, da quel dedalo interiore. Ruotano innanzi a lei innumerevoli sfaccettature della psiche femminile, spesso riflesse e cristallizzate in una temperie storica, ambientale in senso lato. D'istinto, la Dottori converte in amalgama figurativo la scoperta episodica e con essa l'ansia di procedere e l'eterno sospetto di avere gettato lo sguardo appena dentro di sé. Ogni quadro costituisce, dunque, un approdo momentaneo, la tappa di un viaggio interminabile. È una pagina di taccuino in cui le risposte, non mai concluse, si alimentano di un dubbio ostinato, pervadente, di molte domande insolute; ma è pure, senza alcuna contraddizione, la tavola a colori di una esatta topografia dell'animo e della condizione femminile.

Sfogliamo il diario di questa viaggiatrice. Non fa meraviglia che vi si incontrino presenze, ora enigmatiche, ma compartecipi, unite da un senso di complicità, ora divise pur nel breve spazio in cui si affollano - chiusa, ciascuna, nel cerchio di una rassegnazione plurisecolare - e, insieme, congiunte nella familiarità ammutolita della miseria. Irene afferra l'attimo sorgivo dei moti interiori e lo converte in connotazione fisionomica. Per questa ragione, alcuni suoi personaggi appaiono spogli d'identità. Si direbbero campioni di una tipologia esemplare, avvolti in una sottile aura di tragedia greca. Dietro le quinte si erge la greve tirannia del fato.

Vuole, la Dottori, compendiare, talvolta, in una sola rappresentazione l'intero universo femminile. Si rannicchia, allora, in un angolo di quel labirinto, dove gli echi turbati del mondo si ripercuotono e gli accadimenti esteriori rifluiscono sulla scaturigine ribollente degli affetti, e i lasciti del passato perturbano il presente sensibile. Giù, nell'osservatorio riposto, plasma la materia sofferta e ne trattiene un palpito indifferente agli orizzonti. Allestisce scenari onirico-mitologici, in cui la donna, appena si atteggia a dea, è sopraffatta dall'angoscia che domina fuori dell'olimpo e, derisa dalla realtà, esprime in gesti liberatori il bisogno profondo di assoluto.

Nel giardino dell'arte, la Dottori ha messo a dimora e coltiva con mano maestra più di una tecnica e di uno stile. Ha riservato un'aiuola ai fiori dell'astratto e dell'informale. Ne sugge il nettare, ne accarezza l'immateriale eleganza, quand'è presa per mano dall'inconscio oppure guidata dall'urgente bisogno di esprimere un viluppo inestricabile di concetti e sentimenti. Li coglie, li rende visibili per noi e ce li offre con la stessa grazia che rallegra le sue figure e le sottrae ai rudi segni degli ammutinamenti e degli spasimi interiori. La sua dolcezza si esprime in una costante ondosità del tratto e negli accordi cromatici giocati sulla levità dei toni. I rari contrasti non sono che note acute d'un sentimento. I simboli ricorrenti, quali il cerchio e volatili non rapportabili che a una ornitologia dell'immaginario, acquistano significato evidente nel contesto figurativo in cui l'artista li pone. Una circonferenza rappresenta, in definitiva, l'incontro perpetuo e insieme inconcluso, indefinibile nel tempo e nello spazio, dell'alfa e dell'omega, la successione ininterrotta del principio e della fine.

Dionisio Da Pra (Aprile 1989)

 
 
 
 
 
 
 
 
 

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