Il surrealismo lirico di Enrico Ciappei
della Lucertola
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Ah, quel Ciappei! Gli si spezzi il pennello e lo si mandi al confino (la pena restrittiva della libertà personale va applicata contro ogni artista che dissacri i chiusi orizzonti, le caligini quotidiane), non importa dove, pur che un cielo plumbeo lo opprima e un'atmosfera gravida di gas venefici, di ogni più mortifera mefite gli offuschi la solare ispirazione. Che voglia farsi beffe di noi, poveri mortali affetti da miopia, ulissidi arrendevoli agli allettamenti, è dimostrato dalla lucertola - suo alterego o metafora di una condizione di speciale privilegio - che si acquatta in un angolo, quasi fuori di vista, con l'aria d'integrare la firma dell'autore, mentre in realtà fulmina di rapidi guizzi la superficie compositiva e la pervade di una presenza irridente e sorniona. Il minuscolo rettile è un epicureo ante litteram, ha fatto suo fin dalla nascita il principio secondo il quale la sensazione è il criterio della verità, ma anche del bene, ossia del piacere ("Il piacere è il principio e il fine della vita beata" dice Epicuro). Mentre si crogiola al sole, traguarda fra le palpebre socchiuse, giustappone le immagini interiori e lo scarno profilo della terra che gli si stende innanzi e li proietta insieme contro l'astro infocato. Ma è anche uno stoico che, immemore di altri bisogni, addensa la felicità nell'atto respiratorio e non recede dalla sua filosofia contemplativa, neppure - a prova, mozzategli la coda -, per l'insulto di una mutilazione. Non lo turba di certo lo scempio che l'uomo perpetra contro la natura. Allo zenit della sua postazione si aprono spazi incandescenti. Tutt'intorno, gli stessi corpuscoli cristallini che ammorbano l'aria e appesantiscono il respiro conducono a piena gloria ogni raggio di luce, lo rifrangono, moltiplicano in barbagli e aurore boreali, lo sciabolano per obliqui percorsi, lo ricatturano in un eterno prodigio di riflessi, di bagliori. Questo è il miracolo a cui la lucertola assiste - non sappiamo quanto in virtù della sua immaginazione -, e che Ciappei, il vero Io "osservante", riprende e rinnova sulla tela. 

Non lasciamoci ingannare, allorché i suoi dipinti ci ammanniscono, per compiacere al nostro catastrofismo, radi voli d'uccelli, gracili sopravvivenze vegetali, spesso la solitaria ostinazione di un albero rinsecchito o di un fiore che brucia l'ultimo rigoglio. Quell'esiguo catalogo di sopravvissuti non riveste una funzione documentaria, non prelude all'apocalisse che precipiterà il nostro globo terracqueo ai primi esiti del fiat biblico. Al contrario, contraddice il deserto della vita, esorcizza le ecatombi, la nostra morte collettiva. 

Il risultato è perverso. Ci vengono a mancare l'anticipazione della fine, l'antipasto all'orrore a cui c'incammina la nostra demenza suicida. Intendiamoci: anche Ciappei soggiace all'imperativo etico dell'artista. Tuttavia, in lui l'esteta ha ucciso l'ecologo. Guardate nei suoi paesaggi inabitati, se i cieli fluorescenti, i fulgidi impasti dei gialli, dei rossi, dei viola, dell'iride tutta, non assorbono in una atmosfera di estatica autocontemplazione le poche vestigia della presenza umana, le acque esangui, le rocce, ora contorte nell'universo spasimo del creato, ora compassate, ora fiere di mostrare il cesello delle stagioni, i lembi su cui, a volta a volta, agonizzano, delirano, ostentano una serena apatia reliquie di una flora sconfitta, ma non umiliata. 

Ciappei spurga il disegno del superfluo, ma lo conduce al limite alto della capacità evocatrice, lontano da ogni sospetto di rigida stilizzazione; con pari sapienza, insuperato maestro dell'acrilico, tende a scorporare il colore dalla base materica, a risolverlo in pura essenza luminosa. Lascia trasparire di continuo il profondo desiderio di esprimere l'inesprimibile. La pennellata è lieve, abile, sostenuta, si direbbe, da una consapevolezza semantica; genera l'immagine per istinto, senza la mediazione di una minima abbozzatura. Forma e colore sono imparentati da una stessa morfologia. Da questa intuizione, eretta a fulcro dell'esperienza pittorica, discende l'attrattiva che i dipinti di Ciappei esercitano all'istante, prima che l'occhio li analizzi e ne tragga nuovi stupori.

La resa cromatica, si ripete, non ha nulla di fortuito. I colori esplicano una funzione catartica e, al tempo stesso, danno sfogo alla plurisensitività dell'artista, non solo alle sue impressioni visive e alla elaborazione mentale che da queste procede. Anche l'odorato e l'udito, si ardirebbe affermare, condizionano la tavolozza del momento. Si percepisce nelle forme degli oggetti rappresentati, spesso sinuose, elicoidali, coglibili anche dove il colore si ammatassa per ricreare l'impressione di un cirro, di un accumulo di vapori, e nel plasma cromatico che tutto imbeve e anima, insomma, all'interno del costrutto pittorico, un andamento ritmico, musicale.

Ciappei afferra e seduce. Se vogliamo consolarci, trovare un antidoto alle molte brutture, tratteniamolo in mezzo a noi. E ricorriamo ai suoi quadri come ad altrettanti libri de chevet. Oltretutto, ci aiuteranno a sognare.

Dionisio Da Pra (Aprile 1989)

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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