Presentazione della mostra “Etto e la Tribù dei Visilunghi [Parole registrate] .

 

Non accenno alle imprese musical-canore degli Scarafaggi e delle Pietre Rotolanti.

Soffermo un attimo l’attenzione su Ernesto Margueret, Etto in arte, tale, ancor prima, per familiari, amici e conoscenti. Non ha la gota glabra. Anzi, i primi peli gli sono comparsi sul viso decenni e decenni fa. Eppure , il nostro è venuto alla ribalta dell’arte solo allo spirare del secolo scorso.

Intendiamoci: dipinge da una vita. Durante la sua venticinquennale permanenza a Parigi ha frequentato l’estroso e variegato universo degli artisti provenienti dagli orizzonti più diversi, ha beneficiato della guida diretta di alcuni maestri del pennello, di uno in particolare, tratto insegnamento dall’esperienza pittorica altrui e carpito qualche segreto. Questo fecondo passato e l’esercizio costante gli hanno valso, in breve, la conquista di un’eccellente abilità nell’uso dei mezzi tecnici. Non sempre, va detto, il possesso delle capacità espressive si manifesta appieno nell’opera specifica; questa, talvolta, ne occulta le potenzialità, dal momento che l’impiego dello strumentario si adegua al risultato che l’artista vuole perseguire. Prendiamo come esempio le mucche di Etto. Sembrano uscite da una tintoria. Etto, pensa qualcuno, è il pittore che si diverte a dipingere le mucche ed altri animali d’ogni possibile colore.

Chi ha mai visto – pesco a caso - una mucca rossa, un asinello verde, un porcellino viola?

Dunque, sembrerebbe, Etto manifesta la sua originalità distribuendo i pigmenti della tavolozza in modo estroso, stravagante, in spregio alle scelte operate dalla natura. In realtà, quel suo bestiario rivela qualcosa che trascende la pura bizzarria cromatica. Innanzi tutto, mostra come alcuni accostamenti, quasi necessitati dalla loro tonalità a creare contrasto, si armonizzino, si concertino senza stridere, nell’insieme della composizione. Etto, allora, conosce la dialettica del colore, la padroneggia al pari di un autentico astrattista.

Se, tuttavia, guardiamo di là dal colorito, scopriamo quanto siano pregevoli in questa specifica produzione proprio la struttura, l’impianto disegnativo, la dinamica degli atteggiamenti in cui i personaggi a quattro zampe vengono rappresentati. La scena in se stessa risulta ogni volta realistica. I capricci cromatici, dunque, non distraggano l’occhio, non lascino in ombra gli altri elementi della composizione e non devìino il giudizio sull’opera dell’autore.

Dicevamo di aver visto comparire Etto sulla scena nel ruolo di pittore, in tempi recenti. Esordisce, infatti, nel 2000, quando il Castello di Saint-Rhémy-en-Bosses offre all’attenzione dei visitatori un’ampia galleria di ritratti che suscitano interesse e stupore. Si tratta del primo nucleo di una raccolta pittorica, iscritta all’anagrafe, qualche giorno prima, come la “Tribù dei Visilunghi”. Ci si chiedeva, nella circostanza, se lo sguardo stesse percorrendo una rassegna di ritratti, sia pure particolari, oppure una lunga teoria di caricature. Dalle pareti pendevano effigi di personaggi tratti dalla cronaca e dalle pagine della storia; anzi, per la precisione, si esibivano i loro volti, dipinti con una tecnica inconsueta, impostata sull’allungamento e la conseguente contrazione in senso orizzontale dei tratti fisionomici. Questi risultavano, pertanto, deformati, seppure riconoscibili. Una semplice trovata fine a se stessa?

Prima di rispondere, concediamoci una premessa. Il volto che mostriamo può essere una maschera; non rispecchiare, cioè, il volto interiore ovvero l’indole. Quanti imbroglioni presentano una faccia onesta e, quindi, ispirano fiducia. Impiegano il loro aspetto, insieme alle parole acconce, come un cavallo di Troia che ci induce a far breccia nella nostra diffidenza.

Eppure, persino nel sembiante che meglio mistifica il vero Io, che sa occultare le intenzioni, emerge un indizio rivelatore della psiche, nello sguardo, nell’arco d’un sopracciglio , nella commessura delle labbra, un segno di quanto si cela nell’animo. Per la stessa ragione, un santo può avere in volto lo stigma del vizioso o del malintenzionato. La natura si diverte a mescolare le carte. L’apparenza, come si dice, inganna. Per scoprire quei silenti indicatori fisiognomici , cui si accennava, occorre un occhio clinico. Non dubitiamo che Etto lo possegga. Per rendere visibili a chiunque le tracce dell’interiorità, per consegnarci una sorta di ritratto psicofisico dei vari personaggi, Etto ricorre ad un procedimento rappresentativo, tale da consentirgli di mettere in evidenza gli elementi fisionomici che, a suo giudizio, costituiscono una spia del temperamento, del carattere, dei processi interiori - morali, intellettuali, affettivi -, sui quali interviene anche il ruolo sociale rivestito e che, in altre parole, disegnano la personalità. Etto, pare ovvio, non è un osservatore freddo, distaccato; al contrario, interagisce sul piano simpatetico, guarda attraverso una lente, forgiata dal suo sentimento della realtà, dalla sua esperienza, dalla sua sensibilità.

Insomma, Etto, oltre che il fondatore, è il capo spirituale, lo sciamano della “Tribù dei Visilunghi”. Essa include a buon diritto anche gli innovatori del gusto musicale.

Etto chiama oggi all’appello qui in nostra presenza coloro che, negli anni sessanta, meglio, a cominciare dagli anni sessanta, hanno lasciato nelle nostre orecchie il suono inconfondibile delle loro voci e dei loro accordi.

Caro Etto, allo spiritello perverso che si acquatta dentro di me piacerebbe concludere con una notazione negativa. Credimi: sento che ce la mette tutta. Purtroppo, non ci riesce. Diavolo d’ un Etto, vinci sempre tu!

Dionisio Da Pra